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Polvere di Silenzi - Fulmini e tegole



Polvere di Silenzi – Fulmini e tegole
Giovanni Sicuranza

Nonostante viva a meno di cinquanta metri dalla villa dell’architetto, Maria Vigilata, vedova in Orecchio, non si accorge del fumo che rotola nell’aria e arriva alla porta della sua casa in un pugno nero e denso.
Nel tardo pomeriggio di questo giorno, mentre le ombre stanno penetrando il paese di Sotto Sotto, Maria Orecchio è intenta a spiare il soggiorno del suo vicino, dall’altra parte della collina, e le mura in legno coprono ancora il fumo che esce dalla parte opposta. Si trova lì, attenta ai fatti altrui, come del resto è sua abitudine, concentrata nel carpire ogni segreto di Massimo Restauro.
Sa che c’è qualcosa di losco in quest’uomo immorale, così spregevole da avere trasportato la tappezzeria dei morti nella sua dimora.
I morti e le loro cose non si toccano, lo ha detto anche don Dino nell’ultima omelia di domenica.
I morti hanno il loro territorio e i vivi possono solo essere ospiti transitori e discreti.
Che non si mescoli il respiro all’immobilità, la vista alla cecità, il sangue alla putrescenza, non prima del tempo della Resurrezione, ha ammonito tutti don Dino.
Maria ha ascoltato attenta le sue parole, non solo perché stima don Dino Manipulite, ma soprattutto perché sa che la Resurrezione è dietro l’angolo. E mica in senso figurato.
Dietro l’angolo, ai piedi della collina, c’è il cimitero di Sotto Sotto.
Tutto ha un senso, pensa Maria Vegliata in Orecchio, mentre il fumo nero riempie l’aria e sibila nelle fessure della sua abitazione.
Se sapesse che sto guardando nella casa dell’architetto, il mio Lorenzo sarebbe orgogliosa di me, si compiace traballando su un masso, per scorgere le ombre del soggiorno.
Lorenzo Orecchio è morto un mese prima, precipitato dal tetto nel tentativo di riassestare le tegole spostate da un fulmine.
Prima di adempiere all’ultima ascesa della sua vita, aveva alzato gli occhi al cielo, nella terra di mezzo tra la propria villetta a schiera e quella dell’architetto Restauro, e si era grattato la nuca.
Perplesso.
- Mariuccia – l’aveva chiamata con il nomignolo che usava sempre – Guarda quelle tegole, rischiano di caderci addosso.
- Sarà stato il temporale – si era illuminata lei, lo sguardo lanciato dalla veranda al marito, dove stava riempiendo i vasetti di marmellata per don Dino. Il suo contributo agli orfani delle vittime di non ricordava-bene-cosa. 
Le dita grassocce di lui scivolano nei sentieri tra i radi capelli grigi.
- Uh – aveva grugnito – colpa dei parafulmini del nostro vicino. Gli ho chiesto mille volte di spostarli, perché così deviano tutto sul nostro tetto.
Erano state le ultime parole che Maria, detta Mariuccia, aveva sentito dal marito, prima dello schianto. Poi, in un confuso susseguirsi di eventi, erano venuti il funerale, la marmellata offerta da don Dino a parenti e amici affranti, il dolore nella solitudine del cimitero, i movimenti di strane persone nella cripta dei Restauro. E il sogno.
Due notti prima dell’incendio, Maria era tornata Mariuccia.
Stava innaffiando il giardino, solo che al posto dei fiori c’erano tegole e, invece dell’acqua, dall’innaffiatoio usciva marmellata. Marmellata rossa che feriva le tegole. Si era voltata verso il tetto e aveva visto Lorenzo che sporgeva. La salutava con una mano, mentre con l’altra si aggrappava alla grondaia.
Attento a non cadere!, avrebbe voluto urlargli lei, ma si sa che nei sogni, come spesso nella realtà, le parole fanno quello che credono, così la voce si era gonfiata in gola ed era esplosa prima di uscire.
Suo marito sorrideva e faceva sì con la testa; sì, su e giù con la testa, sì. E lei capiva che intendeva “sì, Mariuccia, stai tranquilla, anche se cado sono con te e presto ci sarà la Resurrezione, Mariuccia mia, e inizierà proprio da qui, da Sotto Sotto, Mariuccia mia, e staremo davvero insieme per sempre e amen, Mariuccia mia”.
Mariuccia sua si era tranquillizzata e aveva ricominciato ad innaffiare marmellata; serena, anche al tonfo di un corpo pesante caduto dall’alto.
Al risveglio, aveva compreso all’unisono che: Lorenzo era con lei nello spirito; presto dal cimitero di Sotto Sotto avrebbe restituito presto i morti ai loro cari.
E forse la causa sarebbe stata di quel blasfemo dell’architetto Restauro. Lui, il corrotto, oltre ad avere causato la morte del marito con i parafulmini, aveva spostato la tappezzeria dei Restauro dalla cripta di famiglia alla casa.
Tutti quei morti raffigurati, tutte quelle anime racchiuse nella bidimensione di un dipinto.
Ora a pochi metri dalla dimora degli Orecchio.
Ecco perché Maria Vegliata, vedova in Orecchio, si trova appesa al davanzale del soggiorno del vicino, ondeggiante su un masso, così intenta a scrutarne l’interno da non accorgersi del fumo che si libera dalla stanza da letto, esce all’aria aperta e cerca nuovi pertugi.
Del resto, Maria non saprà più nulla, né dell’incendio, né della Resurrezione dei morti. Maria detta Mariuccia sarà presto accanto a suo marito, nella tomba di famiglia, e nemmeno per sempre, ma solo per alcuni decenni, finché le ossa non saranno tumulate in una fossa comune ad altri cadaveri.

Muore all’improvviso, la vedova in Orecchio, con il viso sul davanzale di Villa Restauro, in un’espressione stupita, che, si dirà, è stata causata dall’essersi accorta dell’incendio che lambiva anche la sua casa.   
Nessuno saprà delle ombre che scorge muoversi all’interno di Villa Restauro. 
Vedere gli avi di Restauro uscire dalla tappezzeria, è francamente troppo. 
Prima che il suo cuore si laceri di terrore, riesce a chiedersi se Lorenzo Orecchio sarà comprensivo, perché muore così, appesa alle mura del nemico. 
Un fiotto urinario sul masso, nero come un’ombra liquida.
  [continua]


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