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"River Runs Deep" (da "Polvere di Silenzi")


"River Runs Deep"
[da "Polvere di Silenzi"]
Giovanni Sicuranza

Ho cinque anni, credetimi.
Cinque anni di predazione nelle viscere buie della città.
Beh, no, non solo di questa città, dipende da dove mi sposto.
In effetti, ho anche sei anni.
Sei anni di lavoro come rappresentante della Società “L’Occasione”.
Un porta a porta di centinaia di chilometri, che ormai ha senso solo come titolo televisivo, mentre io sono il dinosauro della vendita a domicilio, fossile seppellito dal tempo. Nessuno acquista più da noi, c’è l’ipermercato, c’è internet.
A volte qualcuno mi fa ancora entrare in casa e si tratta in genere di anziane interessate alle poltrone anatomiche, al servizio da dodici in porcellana, allo sbuccia patate elettrico. Qualcuna, persino, al forno a microonde musicale; dieci possibilità di memorizzare il brano preferito, collegate con il timer per l’inizio e il termine della cottura.
C’è bisogno di illudersi che la vita procede al ritmo che vogliamo.
Il mio sound preferito è “River runs deep”, in qualunque versione. Insomma, lo metto su e viaggiare in auto diventa l’inizio di un’epopea. A volte, mi capita di ripeterlo dieci volte di seguito, anche più. Ne ho registrate sette interpretazioni e ultimamente ascolto quella di Eric Clapton. Fantastica, riempie il cuore e il respiro.
È adrenalina su adrenalina dopo che ho lasciato la casa del mio potenziale cliente.
Spesso rimangono “potenziali”, motivo per cui non ho mai fatto una grande carriera. I superiori mi considerano un peso improduttivo, lo so bene, e non mi hanno licenziato solo perché l’azionista di maggioranza della Società è mio padre. Per cui, chi se ne frega, continuo a fare il dinosauro migrante, portare in cassa pochi guadagni e ascoltare “River runs deep”.
E sono vivo, nonostante un lavoro frustrante e fuori dal tempo, eccomi qui.
Pieno di energia e di anime blues per ogni vecchietta a cui mostro lo sbuccia patate elettrico da vicino, così vicino che quando lo aziono, a sorpresa, zac!, il naso di lei diventa un proiettile su una scia di sangue.
Mi piace quando urlano, perché mi riempiono. Mi piace meno quando crollano ai miei piedi, fulminate da un infarto. Ma, per fortuna, capita poche volte.
Di solito mi permettono di legarle con il nastro adesivo, di slogare la mandibola con un gesto preciso delle mani sull’articolazione.
Questa tecnica è il testamento di Moira, l’infermiera che mi ha fatto diventare uomo.
Una sadica. Una masochista.
Mi legava, si legava, mi bruciava, la bruciavo. Le sue urla erano eccitazione. Le mie il suo pene per sfondare la vita di merda su turni massacranti e cacche di vecchiette.
Mi amputò il primo dito del piede durante la notte di Natale. Ovviamente, chiese prima il mio permesso.
Era carino vederlo sopra il panettone. Ne ho assaggiato solo poco, il resto era suo.
Ma il giorno dopo, in ringraziamento, mi spiegò come slogare le mandibole. Lo faceva ogni tanto alle sue pazienti, disse, mentre le accarezzavo i capelli, a quelle che di notte si lamentavano di continuo. La mattina dopo, segnava diligentemente sul diario infermieristico la caduta accidentale con disarticolazione della mandibola. Nessuna collega, nessun medico, aveva mai chiesto nulla. Insomma, erano pur sempre relitti sociali che i parenti dimenticavano nella Casa di Riposo.
Qui starai bene, vedrai, nonna, vedrai, mamma, e tanti saluti. 
Ho ucciso Moira dopo che mi ha amputato il secondo dito, questa volta della mano sinistra. Insomma, ho pensato, tutta quella carne soda. Non ho fatto in tempo a mangiarla perché due giorni dopo i Carabinieri si erano presentati alla sua porta. Forse qualche collega alla fine si era insospettita e aveva sporto denuncia. Chissà.
Ricordo che loro bussavano e suonavano il campanello e io li osservavo dallo spioncino, cercando di non fare rumore, ma senza riuscire a smettere di masticare un pezzo di coscia della mia fidanzata.
Mi sono masturbato, eccitato dal rischio, ma sono stato attento a non gemere mentre venivo. 
Subito dopo i Carabinieri sono andati via. 
Ho atteso mezz’ora, mi sono lavato e ho abbandonato la casa della buona Moira.
Tre anni dopo, eccomi qui.
Mangio nonnine.
Quando ho tempo, ne cuocio piccole parti al micro-onde. Di solito preferisco l’interno coscia, se c’è ancora carne. O il fegato, sempre buono. Anzi, più sono anziane, più diventa consistente. E saporito.
“River Runs Deep” segna l’inizio e la fine della cottura.


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