Ave Inferi
Giovanni Sicuranza
Risponde dopo il primo squillo e mi piace pensare che sia il senso di colpa a spingerlo.
- Pronto?
Silenzio.
Lui non ripete, come mi sarei aspettato, ma mi è bastata la banalità della risposta, con quel tono misero, per farmelo conoscere.
- Pronto?
Ah, eccolo.
Ora parlo. Gli dico che sono l’autore di “Ave Inferi”.
Non lo saluto prima. La frase deve essere uno sparo secco, mirato. La prima ferita.
A un tipo che risponde “pronto?” con tono gentile, a una persona così formale e apparentemente educata, la rivelazione immediata del torto, senza preamboli, significa colpo ben assestato. Non mortale, ma grave.
Dall’altra parte, un suono di vetri infranti. Forse aveva un bicchiere sul bordo della scrivania e la sorpresa gli ha fatto terremotare la mano addosso. Forse è solo il suo fottutto buonismo che va in frantumi.
- Come dice, scusi? – echeggia, con rumorose valanghe di saliva in deglutizione.
Smettila di fare lo gnorri, gli dico calmo, ho trovato il mio racconto nel tuo blog. Pausa. Sono l’autore di “Ave inferi”.
Ripeterlo mi da un senso di potenza. Umilio lo sciacallo ferito.
- Non capisco – gorgoglia – Forse un caso di omonimia del titolo. E poi, scusi, come ha fatto ad avere il mio numero?
Ora che lo rimetto a fuoco nella mente, è passato da un pezzo di gruviera a una gelatina di ribes, afflosciata. Non ho detto il mio nome, ma ho formulato l’accusa. E lui se ne esce con “scusi”. È come gli altri sciacalli, non ha ossa a sostenere la pelle. Magari nella vita è una mimica costante di sorrisi e bontà, ma le articolazioni e i muscoli che sostengono quella maschera non ci sono. È un debole.
Con lui sarà più rapido degli altri. Sbuffo, un po’ deluso. Oggi piove, non posso fare la mia passeggiata tra i vicoli. Mi sto annoiando e speravo in un diversivo un po’ più consistente.
- Pronto? – fa lui, in un copia e incolla che mi rende rabbioso.
E tu, chiedo, tu sei stato pronto a rubare il mio racconto dal mio blog, vero.
- Ma no …-
Sei così debole, così alla ricerca di gratificazioni, gli mutilo la frase in un ruggito, che hai messo il tuo numero di cellulare sul profilo. Non ricordi nemmeno questo, affondo con taglio ironico.
- Il racconto – esita, ogni pausa piena di respiri pesanti. Secondo me sta sudando. E parecchio. Secondo me la gelatina si sta squagliando.
Lo esorto a continuare. Lui non lo fa. E non riattacca.
Allora gli chiedo se il finale gli è piaciuto, se ha gradito l’idea di una mutazione del virus degli hardware che, dopo pochi minuti, si riassembla fino a diventare un ibrido rapidamente letale per il PC e per chi tocca la tastiera.
“Ave inferi” è il mio preludio al più grande romanzo che scriverò, sibilo, è tu lo hai umiliato copiandolo senza capire un cazzo. Lo hai sporcato con il tuo nome come autore, perché sei un cosmico vuoto mentale e non hai le palle per ammetterlo.
- Senta, io, ecco, guardi, lo tolgo subito – annaspa.
Ecco, il momento più bello è questo. È quando annuncio che è troppo tardi. E lo faccio con chi il tono spento di chi da una notizia noiosa. O scontata.
Perché, chiedono di solito.
- In che senso è tardi? – si prolunga invece il mio sciacallo.
Non ha il dono della sintesi. Non potrebbe mai essere l’autore di un capolavoro come “Ave inferi”. Si prolissa addosso parole e incertezze.
Mi appoggio sullo schienale della poltrona, faccio un mezzo giro e mi fermo davanti alla foto di mia moglie. Bella e morta. Era un pirata informatico. Professione ufficiale, biologa. La polizia indaga ancora sulle cause del decesso, ormai da tre mesi, ma non ha prove per dimostrare che l’impiccagione è omicidio. Dovrebbero prima scoprire il potere di “Ave inferi”, il virus mutageno.
Mi rilasso mentre penetro mia moglie, occhi negli occhi. Sguardo intelligente, ma anche di chi sorride troppo. Di chi si fida troppo.
- Cosa mi ha …
Oh, sciacallo in linea, cara. Sentilo, è già dispnoico. Deve essere nella prima fase, quella in cui le mani che hanno tastierato diventano viola e bruciano. Quella in cui il respiro diventa una lotta contro il masso che schiaccia il torace. Poi ci sarà quella delle emorragie interne. E quella del vomito ematico. E poi.
- Non è possibile – piange gelatina – La prego, mi aiuti.
Ti sto aiutando, idiota, gli spiego, paziente, mentre una mano mi scivola dentro la lampo dei calzoni e guardo la foto di mia moglie. Sei un parassita che vive sulla genialità altrui. Un parassita sarà la causa della tua morte.
- Ma questo, no, questo succede solo nel racconto.
Chiudo gli occhi. Quello che mi eccitava di più di lei erano le gambe e i piedi, soprattutto se velati dai collant. Per questo l’ho impiccata. È stato così sensuale vederla agitare le gambe nell’agonia, scalciare il vuoto fino a perdere le scarpe e mostrarmi i suoi piedi, piccoli, perfetti.
Se l’avessi spinta dal terrazzo, mi sarei perso questo spettacolo.
La mia mano stringe forte e si muove, su è giù, al ritmo dei rantoli dello sciacallo.
Non siamo in un racconto, gli spiego, ansimando con lui, non bisogna costruire ogni particolare per rendere credibile la storia. Hai copiato “Ave inferi” e con lui il virus. Ora tu e il tuo complice, quel fottuto PC con cui stupri gli spazi altrui, morite.
Lui non mi risponde più. Sento ondate di conati e le vedo. Come in una cartolina, vedo le cascate di sangue che esondano dalla sua bocca.
“Ave inferi” è solo agli inizi.
Benvenuti, lettori. Condividete.
Spargete il morbo.
Spargete il morbo.
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