La democrazia fu inventata - in «circoli anglofoni» - per consentire il ricambio dei governanti senza spargimento di sangue. Da Hammamet a palazzo Grazioli, le nostre ere politiche sembrano invece destinate a finire nel dramma, con i protagonisti inseguiti dalla giustizia e scagliati dall'altare del potere alla polvere del ludibrio.
È lo spettacolo di questi giorni. L'epoca di Berlusconi sta terminando in un modo molto peggiore di quanto avrebbe meritato la sua rivoluzione politica. È grazie ad essa, per esempio, se oggi tutti concordiamo sul fatto che non vi si possa mettere fine con golpe parlamentari o giudiziari. Ma, d'altro canto, l'agonia rischia di essere insopportabilmente lunga e pericolosa, perché è perfino meglio nessun governo (come dimostra il caso belga) che un governo finito.
In una democrazia matura, il dilemma sarebbe risolto così: il partito che ha vinto le elezioni si rende conto che perderà le prossime se non cambia leader, e dunque lo cambia. È successo in Gran Bretagna con la Thatcher prima e con Blair poi, in Francia con Chirac, e in Spagna con Zapatero. Serve anche a proteggere il leader uscente dal calcio dell'asino, magari giudiziario. Qualche volta ha funzionato e la transizione è stata morbida (da Thatcher a Major, da Chirac a Sarkozy); qualche volta no (il Labour non si è più ripreso dall'addio a Blair). Però la lotta politica si svelenisce, la democrazia torna al lavoro, ci si butta il passato alle spalle.Questa soluzione presuppone che il partito di maggioranza sia libero di agire e sia fornito dell'istinto di sopravvivenza. Ma il nostro problema è che sia il Pdl sia la Lega, le due forze di governo rimaste, sono partiti personali, e Berlusconi e Bossi ne sono i padri-padroni. Sapranno emanciparsi da questa condizione di immaturità democratica, e vivere di vita propria? O preferiranno seguire la sorte del creatore? Il Pdl è pieno di gente consapevole del fatto che il gollismo è veramente nato con Pompidou, che serve cioè un successore per fare di una scintilla una storia. Sta a loro agire, e presto. Perché, con tutto il rispetto, se Angelino Alfano pensa davvero che «dopo Berlusconi non ci sarà nessuno di noi», che ci sta a fare al vertice di un partito destinato a sparire? Che sia questione di vita o di morte, del resto, ce lo dice proprio chi oggi invece si muove: Formigoni già parla di una nuova stagione in cui «sacrificare il nome stesso del Pdl».
Per avere il coraggio che l'ora richiede, il mondo berlusconiano dovrebbe innanzitutto sgombrare il campo dagli alibi. La causa del collasso non sono i «trappoloni» giudiziari (che pure ci sono, con tre Procure che indagano tutte sullo stesso reato e quella di Napoli nel ruolo di Maramaldo): da 17 anni Berlusconi è sotto assedio penale ma il suo successo politico se n'era sempre fatto beffe. Né deriva dalla robustezza dell'offerta politica alternativa, ché anzi con la nascita di un frontismo Bersani-Di Pietro-Vendola lo spazio elettorale del centrodestra è solo più ampio.
La vera causa di questo epilogo è la crisi del debito e del Pil, incubata in un decennio che per otto anni ha visto Berlusconi a Palazzo Chigi. È nel modo insufficiente e caotico con cui si è tentato di tamponarla. È in una maggioranza che non si è mai ripresa dalla secessione di Fini, e oggi è troppo raffazzonata per essere capace di grandi cose. È nel dualismo con Tremonti e nel soliloquio di Bossi. La causa è politica, e richiede rimedi politici. Senza i quali, anche il Pdl rischia di diventare un partito a tempo perso.Editoriale presente sul "Corriere della Sera" del 18 settembre 2011 e qui riportato dal link http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_18/polito_buon_costume_8cb18434-e1c7-11e0-87d5-1f893d7963e9.shtml
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