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Schizofrenia del quotidiano – riflessioni varie ed eventuali intorno all’eutanasia

Con 278 “sì”, 205 “no” e 7 astensioni, pochi giorni fa, il Disegno di Legge sul testamento biologico ha avuto il via libera della Camera e, in estrema sintesi, lascia il potere di decidere al medico.

Il Sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, l’ha definita una legge “saggia ed equilibrata”, che “riafferma il primato del Parlamento rispetto ai provvedimenti creativi della magistratura”, come ha sottolineato anche il Ministro del Welfare, Maurizio Sacconi.
Un Disegno di Legge che, con i limiti introdotti dalle correzioni in Aula, di fatto vanifica le Disposizione Anticipate di Trattamento (DAT), aprendo lunghi e dolorosi e dispendiosi ricorsi alla Magistratura.
Il nuovo testo dovrà tornare in terza lettura al Senato. Al momento, prevede, tra l’altro, il divieto di eutanasia, interruzione a idratazione e nutrizione solo per i malati terminali nei quali non siano più idonee o dannose.
E, si ribadisce, niente vincoli per il medico, che non dovrà nemmeno confrontarsi, in caso di controversia con il fiduciario, con un collegio di medici.
Il cittadino, scrivendo la sua DAT, potrà solamente indicare i trattamenti che non vuole ricevere e solo in caso di accertata l'assenza di attività cerebrale.
Poi il medico potrà fare quello che crede opportuno. Morte o meno cerebrale che sia.

Davanti a questa ennesima prova di concretizzazione schizofrenica, il mio primo pensiero, ora, è, vuole essere, volutamente provocatorio. Brusco.
Sostituisco il termine eutanasia per chiamare l’argomento di cui tratto con un nome pieno di divieti.
Morte. Qui si parla di morte. Uno dei pochi e radicati tabù rimasti nella civiltà occidentale, più del sesso. Provate a parlare di sesso tra amici; magari chi con battute, chi con scandalo a vari livelli di sopportazione, ma se ne parla.
Provate ora a parlare di morte. Non nel senso della notizia della morte di qualcuno. Ma della morte. Della nostra fine. Credo che nel giro di pochi minuti andrete incontro a due possibilità: vuoto intorno a voi, ricovero in struttura psichiatrica.
Perché? Un grande storico francese, Philippe Ariès, lo spiega bene nel suo saggio, “Storia della morte in occidente”, sul quale non mi soffermo appunto per non farvi fuggire, ma che cito per i più curiosi.
Qui mi preme sottolineare un dato interessante e contraddittorio che riguarda i nostri tempi.
La prima considerazione: nel corso della storia, siamo passati da una morte cosiddetta “addomesticata”, vissuta come evento collettivo, e “romantica”, ad una morte “negata”.
Oggi la morte viene considerata un tabù di cui non parlare, da nascondere, così come si deve nascondere la sofferenza, sua grande alleata. E non si muore più in casa, ma in ospedale. Nascosti.
E questo introduce il secondo aspetto: grazie ai progressi della medicina e della scienza in generale, la morte è diventata anche “medicalizzata”, spostata oltre il suo argine. La medicina costringe a vivere persone che un tempo sarebbero già morte.
Forse tutto è iniziato con il rene artificiale. Fino a pochi decenni fa’, l’uricemia da insufficienza renale intossicava l’organismo e procurava la morte. Poi è arrivata la macchina cuore/polmoni, la nutrizione con sonda gastrica o endovenosa. Lo stesso arresto cardiaco non è più segno di morte certa, perché il cuore può essere defibrillato. Tanto è vero che noi medici abbiamo spostato la definizione di morte sul criterio di cessazione irreversibile e completa della funzione cerebrale.
Ecco allora, da un lato, la paura della morte, il desiderio di nasconderla, e, dall’altro, la facoltà di prolungarla oltre i suoi limiti naturali. Questo è il respiro affannato che caratterizza la nostra società. E forse giustifica in parte la schizofrenia che viviamo nei nostri tempi. E che si riversa anche sui dibattiti intorno all’eutanasia.
E allora facciamo un passo indietro. Cos’è la vita?
A prescindere da opzioni religiose, che personalmente non mi riguardano, per l’uomo, ma credo anche per gli animali superiori, la vita coincide con la consapevolezza del sé.
1L’uomo acquisisce questa consapevolezza. Il neonato è molto più di forma di vita biologica, ma non ha la consapevolezza del vivere, non ha né il concetto di vita, né tantomeno quello di morte.
Allora, quale vita va difesa? La vita biologica, cioè la vita in quanto vita, oppure la vita in quanto consapevolezza del sé? Ovvero, la vita autobiografica, fatta di ricordi, esperienze, ecc.
La domanda è vuota, perché non abbiamo in realtà una visione soddisfacente e completa del concetto vita.
Nessuno considera, almeno in genere, lecita l’uccisione di un neonato, o di un cerebroleso. Qui non si discute affatto di eutanasia razziale o economica-sociale.
Infatti, per quanto agli individui in pieno possesso delle facoltà mentali, alcune situazioni possano sembrare “vita senza consapevolezza”, questa strada è impercorribile. Ma non lo è per dogmi imposti dall’alto, per dettami e divieti fatti cadere dal cielo.
Lo è perché, fin da piccoli, noi agiamo naturalmente per compassione e rispettiamo la vita. O meglio, il dolore. Chi ha figli, avrà avuto modo di conoscere il loro istinto di partecipazione al pianto, al dolore di un altro. Non abbiamo bisogno di ordini dogmatici per capire che la vita individuale, in ogni aspetto, va difesa. Direi anzi che in noi, fin dai primi anni di vita è già presente un abbozzo di etica “naturale”, che ovviamente va coltivata e ben educata dagli adulti.
E invece siamo qui a parlare di spegnere la vita di un individuo. Siamo qui a parlare della possibilità di dargli la morte.
In fondo, stiamo parlando di omicidio o quantomeno di suicidio assistito.
E entriamo ancora più a fondo nella morte, intorno ad un altro tabù che sempre ha accompagnato l’uomo. Un tabù che è ancora più forte del concetto astratto della morte. Uccidere. Aiutare a morire.
Lo stesso giuramento di Ippocrate recita: “Non darò a nessuno farmaci mortali, neppure se richiesto, né mai suggerirò di prenderne”. E ancora oggi il Codice Deontologico Medico è ben chiaro nel condannare l’eutanasia. Tuttavia se Ippocrate scriveva questo, vuol dire che già allora c’era un problema. Il medico poteva essere la forbice che taglia la vita.
Eppure il tabù dell’omicidio in assoluto è rimasto forte, più forte di quello di eliminare la sofferenza o comunque un residuo di vita con scarsa dignità.
Se oggi riusciamo in modo più o meno valido ad arginare il forte dolore di un malato terminale, questo non basta a negargli il diritto alla morte, se la sua vita è un filo diretto da macchine di sopravvivenza.
Prima ho citato Ippocrate. Ora voglio dare un’altra citazione, dell’inizio del diciassettesimo secolo: “il compito del medico non è solo quello di ristabilire la salute, ma anche quello di calmare i dolori e le sofferenze legati alle malattie; e di poter procurare al malato, quando non c’è più speranza, una morte dolce e tranquilla; questa eutanasia è una parte non trascurabile della felicità”. Francesco Bacone, che introduce, per la prima volta, il termine eutanasia.
Allora, dove prendiamo questo diritto di procurare la morte quando l’uomo versa in condizioni di dolore o di perdita di dignità di vita?
Sappiamo che la dottrina della religione cattolica lo nega. La vita è di Dio e solo lui ne dispone, ovviamente attraverso i suoi ministri.
Anche se poi la stessa Chiesa si pronuncia contro l’accanimento terapeutico, cioè contro l’ostinazione oltre l’evidenza di voler prolungare con la terapia una vita già spenta. E questo era probabilmente il caso di Welby.
A parte il concetto di accanimento terapeutico, e per tornare al tema trattato, personalmente non vedo una differenza, nello scopo finale, tra eutanasia attiva, passiva o indiretta. In ogni caso, il risultato è lo stesso: dare la morte al malato, sia che io agisca, sia che smetta di agire. In fondo, anche desistere da un accanimento terapeutico, che è legittimo, potrebbe essere visto almeno in certe circostanze come una forma di eutanasia passiva. Si tratta in entrambi casi di un comportamento omissivo del medico, ovvero del non fare, che placa gli animi e la fede.
Inoltre, mi domando, se la vita è di Dio e deve seguire la Sua volontà, non siamo già peccatori quando rianimiamo un uomo? Non dovremmo in fondo lasciare che Dio se lo prenda invece di sottoporlo a dialisi, a trasfusione?
E, invece, se possiamo prolungargli la vita con questi strumenti, non possiamo anche capire che quando una vita prosegue solo fasciata da dolore o nuda di ogni dignità ha il diritto ad essere spenta?
Uno studio pubblicato sul Lancet, nel 2003, svela che il 23 per cento dei decessi in Italia sarebbe da attribuire a decisioni mediche che abbreviano la vita.
Il malato dovrebbe avere la facoltà di difendere la qualità della propria vita anche in prossimità della morte, di affrontare l’eutanasia, se la malattia o i macchinari che la stabilizzano riducono ad un nulla la qualità dell’esistenza.
Questo ragionamento si basa su un principio forte, radicato, frutto delle conquiste più importanti. Il principio di autoderminazione.
Le sue origini sono lontane. Solo per citarne alcuni tratti recenti: art. 2 della Costituzione: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità ...”; art. 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ...”; e ancora: nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori se non per casi imposti per legge (casi rari). Infine, rimando alla convenzione di Oviedo, approvata dal Consiglio Europeo nel 1997, e in Italia ancora spesso lettera morta, anche se ratificata nel 2001 (Gazzetta Ufficiale del 28.03.01).
Ma soffermiamoci su un altro aspetto del principio di autoderminazione.
La Corte Costituzionale, con una sentenza del 1985, conferma la legittimità di mutare sesso con un intervento chirurgico. Il punto interessante è che la sentenza definisce l’intervento chirurgico come atto terapeutico teso alla realizzazione del diritto alla salute dell’individuo, che, in questo modo, ritrova la sua identità. Ecco la possibilità di modificare, e addirittura mutilare, il proprio corpo, in nome del benessere psichico, possibilità prevalente sull’articolo 5 del codice civile, che vieta gli atti a disposizione del proprio corpo che causino invalidità permanente.
Anche la legge sull’aborto tutela la salute psichica della donna.
Ecco dunque che si procede verso una difesa sempre maggiore nei confronti del principio di autoderminazione dell’individuo. E in particolare, come dimostrato da questi due importanti esempi, vi è una particolare attenzione al benessere psichico. Ancora, sembra che stiamo finalmente assistendo anche alla ricerca istituzionalizzata dell’abbattimento del dolore. Si pensi ad esempio alla recente proposta dell’onorevole Turco, epidurale per tutte le donne in travaglio.
Eppure, quando si parla di diritto a scegliere la qualità della propria vita, oggi tutto questo principio viene infranto da divieti, che sembrano basarsi più sul dogma della sacralità della vita stessa ad ogni costo, più sul tabù cieco della morte, piuttosto che sul buon senso e sul principio di autodeterminazione.
Riflettiamo su un dato.
L’ISTAT informa che su 3.265 suicidi accertati nel 2004, il 50 per cento era dovuto a sofferenza e/o solitudine causate da malattie fisiche o psichiche. Per fuggire al dolore o ad una dignità depredata dalla malattia, queste persone hanno deciso di uccidersi.
Provate a concretizzare per un istante questi dati astratti, a sentire il dolore e l’impotenza che si aggiunge a queste vite già gravemente menomate.
Pensate ai loro cari. Sono infatti molti i casi in cui la persona richiede l’aiuto di un terzo, magari perché impossibilitata a togliersi la vita da sola, o semplicemente perché non sa come fare. Ed ecco dietro una schiera di familiari, amici, medici.
E la legge, la nostra legge, come giudica questi casi? In Italia procurare la morte, sia pure per compassione, è un illecito penale. L’eutanasia non è mai specificata nel codice, ma rientra in altri reati. Quando non è richiesta dal soggetto, rientra nell’articolo 375 del codice penale: omicidio volontario. Se c’è il consenso del paziente, in omicidio del consenziente (art. 579). Se il medico ha svolto un ruolo importante in una decisione comunque attuata dal paziente, aiuto al suicidio (art. 580). Anche se di solito, il motivo della compassione, o della pietà, costituisce attenuante della pena, verificabile tuttavia dal consenso del paziente e, ovviamente, fatta eccezione per l’omicidio volontario in cui appunto tale consenso manca.
Ma io vi chiedo: se la malattia lede il principio fondamentale dell’autodeterminazione, non si rende necessario un aiuto per ripristinare questo diritto? Mi spiego, se sono paralizzato e non posso suicidarmi come vorrei, il mio diritto alla libera scelta di cosa fare della vita viene annullato se non ho qualcuno che me lo ripristina con la mia volontà e il suo aiuto concreto.
Non è superfluo ripetere che in questi casi, come sempre dovrebbe avvenire, il consenso dell’ammalato è fondamentale. E si basa ancora una volta sul principio di autoderminazione.
Per questo ben venga anche in Italia l’attuazione del testamento biologico. Una volontà scritta che indichi chiaramente e con consapevolezza guidata dal parere medico, la decisione da prendere nell’evenienza di una grave ed irreversibile patologia che non ci permetta di decidere nel suo manifestarsi.
Attenzione, il testamento può essere redatto anche in “negativo”, ovvero esprimere la volontà di continuare le cure ad ogni costo (fatto salvo per i casi di accanimento terapeutico).
E nel caso di un malato che non può più esprimere la propria volontà? Possiamo rintracciare sue precedenti dichiarazioni, testimonianze, ma non sempre questo è possibile. E allora spesso la decisione è lasciata all’esperienza e alla volontà del medico e dei familiari.
Perché c’è un vuoto normativo enorme, che lascia il singolo caso sulle spalle dell’improvvisazione del medico e sulla sua convinzione personale.
Vi faccio un esempio di confusione sull’onda del caso Terry Schiavo, che credo tutti ricorderete e sul quale si sono scritti enciclopedie di nulla.
Pensiamo a un paziente in coma irreversibile, quello che un tempo era chiamato paziente “sempreverde”.
L’idratazione e la nutrizione artificiale in questi soggetti in stato vegetativo permanente rappresentano un trattamento medico? La definizione è importante, perché in tal caso, persistendo ad alimentarli, potremmo cadere nell’accanimento terapeutico.
Da Ministro della Salute, il professor Veronesi aveva nominato una commissione di esperti che aveva concluso che l’idratazione e la nutrizione artificiale sono trattamenti medici, in quanto viene somministrato un nutrimento come composto chimico, che solo i medici possono prescrivere e che solo i medici o personale paramedico sono in grado di introdurre e controllare.
Ma capite che, in assenza di volontà espresse in precedenza con le cosiddette “dichiarazione anticipate”, o testamento biologico, questa scelta è sempre ardua in un vuoto normativo.
Concludo con una considerazione.
Come abbiamo visto, il bene tutelato non è quello della vita ad ogni costo. Ma il bene salute. Che, dal punto di vista medico-legale, coincide con l’integrità psico-fisica dell’individuo.
Abbiamo anche visto che, in quest’ambito, la tutela psichica della persona sta avendo sempre più importanza.
Ecco, allora vi chiedo, e mi chiedo, se un medico deve tutelare ad ogni costo non il bene vita, ma il bene salute, come può ledere ancora di più questo bene in nome di personali convinzioni?
Mi spiego meglio.
Un medico che si rifiuta di prescrivere la pillola del giorno dopo, un medico obiettore, agisce secondo la propria coscienza, è vero. 
E la legge lo permette.
Ma non lede in realtà il principio di autoderminazione, la libertà di scelta della donna? Non rischia di causarle un danno enorme? Fisico, psichico e sociale, non solo per una gravidanza indesiderata, ma anche per l’impotenza nell’assunzione di un anticoncezionale irraggiungibile, mentre le ore avanzano, se non trova un altro medico che vorrà prescrivere la ricetta. Perché purtroppo il problema che capita di vivere nel concreto è questo: la mancanza del medico non obiettore.
Su questo ragionamento mi spingo oltre.
Un medico di fronte ad una vita segnata dal dolore, o priva di dignità, una vita che è diventata solo un concetto astratto, si rifiuta di aiutare a morire il paziente. In modo attivo o passivo, qui non importa. Ancora, lo fa per questioni di coscienza.
Allo stesso modo, lede ulteriormente il principio di autoderminazione e l’integrità psichica, se non anche fisica, di quella persona che esprime il desiderio di morire, o che lo ha espresso in passato.
Ecco, allora, mi chiedo se questi medici, che, in nome di una vita da difendere ad ogni costo, antepongono la loro coscienza alla tutela del bene del paziente, della sua dignità, e del suo diritto di autoderminazione, non siano in realtà accusabili di negligenza. Se non si configuri una responsabilità professionale omissiva – ovvero il non fare – di fronte alla richiesta manifesta e motivata del paziente di fronte alla sua patologia.
Si tratta di un pensiero provocatorio, esposto da cittadino e non da medico, di fronte alla carenza concreta, nel quotidiano, di una tutela efficace di chi ha bisogno e chiede aiuto.
Aspetto dunque risposte da uno Stato laico, al momento, sembra, “utupistico”, che indichi il percorso del malato, dei suoi familiari e del medico verso una tutela vera e concreta della dignità della vita. E del saper morire.
In questa attesa termino, prendendomi la responsabilità di tutta la vostra noia e degli sbadigli correlati.

Giovanni Sicuranza, medico legale

articolo ripreso dal blog di Radio RSC al link: http://www.zazoom.it/blog_rsc/post.asp?id=1434

















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