Piove.
L’ombrello nero, ovunque nero, appeso a punta in giù.
Il manico incurvato, ben saldo alla maniglia della porta d’ingresso, come una zampa, con un’unica, lunga falange, di un volatile.
Chissà da quanto tempo è lì, dimenticato ad asciugare. Dovrei ricordare quando è stata l’ultima volta che ha piovuto.
Ma non ho tempo.
Ora ho esaurito il credito dell’attesa. Lei mi attende, la vedo. Vestaglia rossa tra le lenzuola nere.
Le tenebre sono il nostro mantello di passione.
Sono in ritardo, non posso esitare.
La mia auto è proprio davanti all’ingresso, lucida di pioggia.
Gocce rimbalzano in ogni metallico ostacolo della carrozzeria.
Esplodono o dove vanno? Non riesco a capire, è così insolitamente buia la strada, nonostante le luci esterne.
E comunque devo andare, prendere l’ombrello, aprire la maniglia, uscire.
C’è lei.
Sento il suo fremito, lo trasmette nella mente, tra le gambe.
Esco.
La pioggia mi scorge subito, sciami d’acqua si gettano sul mio corpo, freddi, pungenti.
L’ombrello.
Ecco, quasi dimenticavo di averlo con me, i pensieri penetranti nell’immagine di lei.
È solo una frazione, prima di proteggermi dalla pioggia: alzo d’istinto lo sguardo al lampione e allo stesso tempo abbasso la mandibola, stupito.
Lei svanisce, le emozioni assorbite da quanto sta accadendo.
Mai visti tanti pipistrelli in giro, intorno alle luci della strada.
Perché non è solo il lampione al mio fianco che è offuscato dalla loro presenza, ma, ecco, mi accorgo della folla di queste bestie in ogni angolo di luce esterno.
Credevo che la pioggia le tenesse lontane, ma forse mi sbaglio.
Quando scorgo le poche persone in strada, e mi rendo conto che sono la mia stessa fotografia, prive di riparo dalla pioggia, immobili ad osservare le nuvole nere che fremono sopra le nostre teste, allora capisco.
Ma ho appena aperto il mio ombrello nero. Che è già volato verso il lampione.
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