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Tributo a Edgar Allan Poe



Edgar Allan Pop.

Edgar Allan Poe è l'unico scrittore pop che l'Ottocento ci ha lasciato.

Uno scrittore diventa pop quando sfonda il muro che delimita il pubblico degli addetti ai lavori e dei cultori della sua arte ed entra in un mondo più ampio, indistinto, eterogeneo.

Per essere pop bisogna avere una faccia e un nome.

Tutti conoscono Edgar Alla Poe, anche chi non lo ha mai letto, anche chi non legge mai.

Per arrivare velocemente all'esempio di oggi, la poesia “The Raven”, scritta nel 1845, si noti come i temi della poetica bostoniana rimangono in sottofondo, sia pure nudi, crudeli.
Sono temi che limitano l'Autore, ma che, allo stesso tempo, lo rendono originale. Pop oltre i confini del suo secolo. 
Perchè Poe, pur suonando su una tastiera limitata, trae melodie sorprendenti e ogni volta varie, che ancora oggi vibrano sulle nostre emotività.
Al centro di tutta la produzione dell'Autore c'è la romantica dicotomia tra Eros e Thanatos. Ma nelle poesie, così come nei racconti, manca ogni riferimento alla componente sensuale-sessuale tra uomo e donna.
Le figure feminili sono incorporee, con descrizione esteriore spesso convenzionale.
Quando la fisicità e la concretezza materiale del sesso premono per farsi sentire, lo sbocco narrativo è quello della violenza e della pervesione (vd. “Il mistero di Marie Roget”, ad esempio).
In Poe Eros si trasforma sempre in Thanatos; anzi, è la morte ad avere il sopravvento.
Il rimpianto per colei che è defunta diventa il sentimento predominante.
Del resto, questa è la lezione che Poe ha avuto fin da bambino, con la morte prematura della madre, dell'adorata matrigna, della moglie.

In “The Raven”, a differenza delle poesie degli esordi, la natura, consolazione nella solitudine, passa in secondo piano.
Il protagonista è un uomo chiuso in una stanza, mentre la natura batte alla finestra, in forma di tempesta.
Quando l'uomo apre le imposte, nella sua camera entra una creatura che solo in apprenza appartiene all'ordine naturale, ma che in realtà si propone da subito come un simbolo.
Il simbolo del dolore, dell'inconscio. Del nero contro il bianco della saggezza.

Il ritmo narrativo della poesia, scandita nella penombra dell'atmosfera gotica, è ben palpabile, e attuale, fin dagli inizi, che qui riporto.

Nel seguito si ripeterà, ossessiva, la frase "never more" - "mai più", ma ogni volta in un contesto diverso, nel crescendo di angoscia e impotenza.

Era una cupa mezzanotte e mentre stanco meditavo su bizzarri volumi di sapere remoto, mentre, il capo reclino, mi ero quasi assopito, d’improvviso udii bussare leggermente alla porta.

“C’è qualcuno” mi dissi “che bussa alla mia porta. Solo questo e nulla più”.

Ah, ricordo chiaramente quel dicembre desolato, delle braci morenti scorgevano i fantasmi al suolo. Bramavo il giorno e invano domandavo ai miei libri un sollievo al dolore per la perduta Leonora, la rara radiosa fanciulla che gli angeli chiamavano Leonora, e che nessuno, qui, chiamerà mai più.
E al serico, triste, incerto fruscio delle purpuree tende, rabbrividì, colmo di assurdi terrori inauditi. Sebbene ripetessi, per acquistare i battiti del cuore:

“E’ qualcuno alla porta, che chiede di entrare, qualcuno attardato, che mi chiede di entrare. Ecco: è questo e nulla più”.

Poi mi feci coraggio e senza più esitare:

“Signore” dissi “o Signora, vi prego, perdonatemi, ma ero un po’ assopito e il vostri lieve tocco, il vostro così debole bussare mi ha fatto dubitare di avervi veramente udito”.

Qui spalancai la porta: c’erano solo tenebre e nulla più ... 

[...] 

(Il Corvo – Edgar Allan Poe)

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