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E li chiamarono briganti. Oltre la storiografia ufficiale.

La storia della fine del Regno delle Due Sicilie è una storia matrigna, imposta da 140 anni di versione ufficiale, romantica, con lo scopo di infangare ed annullare la memoria storica, di cancellare le radici di un popolo che aveva osato rifiutare la libertà giacobina e savoiarda.

I briganti sono un ricordo, mentre la mafia e la camorra, che a ben ragione possono essere indicate come le espressioni dello stato unitario savoiardo, vivono e si moltiplicano piú che per la loro capacità organizzativa, per la premeditata inazione dei governi post-risorgimentali ed attuali.

Briganti erano le centinaia di migliaia di Duosiciliani uccisi negli scontri con l’esercito invasore, trucidati nelle loro case, briganti erano gli abitanti di 54 paesi rasi al suolo, briganti erano le donne violate, i preti crocifissi, i 60.000 soldati borbonici chiusi nei campi di concentramento di San Maurizio Canavese e di Fenestrelle a morire di fame e stenti.

Ma per battere quei briganti, il liberale e democratico Piemonte dovette far scendere in campo piú di 120.000 soldati di linea, affiancati da quasi 400.000 guardie nazionali. Dovette dichiarare, nel 1865, con la incostituzionale Legge Pica, il regime di guerra.

L’esercito piemontese affrontò una guerra interminabile, la piú feroce e sanguinosa della sua storia militare, cercando di mettere la sordina, di far trapelare il meno possibile, arrivando a nascondere il numero dei soldati caduti.

Se avesse lasciato campo libero alla stampa dell’epoca, il governo piemontese non avrebbe piú potuto invocare la "volontà popolare" espressa durante i pilotati plebisciti per legittimare l’annessione del Regno delle Due Sicilie.

I piemontesi, sorpresi dalla massiccia reazione popolare, macchiarono la loro bandiera con un comportamento barbaro e criminale.

Alcuni dati.
Il 21 gennaio 1861, resi furenti dalla serie di scacchi subiti dai "briganti", i piemontesi massacrarono 356 combattenti borbonici fatti prigionieri a Scurcola Marsicana, senza tener conto, in spregio ad ogni convenzione militare, che Re Francesco II combatteva a Gaeta, che a Scurcola la bandiera che sventolava era quella del Regno delle Due Sicilie, la stessa che garriva al vento sulle fortezze di Messina e della gloriosa Civitella del Tronto.

La consorteria massonico-savoiarda era discesa al sud con l’intento sí di abbattere la dinastia borbonica, ma anche con finalità conservatrici, sia sul terreno politico, che economico-sociale. Prima della colonizzazione, infatti, il Regno delle Due Sicilie era tra i più ricchi d'Europa.

Finalità che avevano l’appoggio incondizionato dei latifondisti meridionali, i quali vedevano un pericolo nella politica spesso enunciata e già molte volte applicata dai Borbone, e quindi con più impeto da Garibaldi, con l’assegnazione di terre ai contadini.

Il costo di tale patto doveva necessariamente ricadere sui contadini e su tutto l’ex Regno.

Inoltre, la conquista di un mercato vasto come quello del Sud avrebbe finalmente visto lo sviluppo delle industrie piemontesi e lombarde.

Per la legge del contrappasso, le fiorenti industrie napolitane vennero spazzate via: le fonderie di Mongiana (Cosenza), dove gli "inetti meridionali" riuscivano a produrre le traverse (lunghe ognuna 34 m) per il primo ponte in ferro in Italia sul fium Garigliano; le officine di Pietrarsa, dove venivano costruite le prime locomotive quando gli altri Stati Italiani, in primis il Piemonte, le importavano dall’Inghilterra; i moderni, per l’epoca, cantieri navali, che produssero la prima nave a vapore che solcò il mare. Tutto sequestrato, a beneficio dell'economia piemontese, o distrutto.

La scelta era tra essere briganti o emigranti, e molti scelsero di diventare prima briganti, poi emigranti. Briganti che diedero serio filo da torcere a esperti militari come Cialdini, Fumel, Pinelli e che fecero pensare seriamente al potere politico piemontese di abbandonare quella terra che tanto costava sangue e disonore.

Fu guerra, e non brigantaggio, senza quartiere, senza alcuna regola cavalleresca. Fu una gara alla ricerca della massima crudeltà.

Guerra che cominciò all’indomani della proclamazione dell’unità d'Italia, il 17 marzo 1861, e che durò per quasi dieci anni.

Non è possibile accertare il numero di coloro che presero parte attiva alla guerra contro gli invasori, ma parecchi storici concordano nel quantificarlo in circa 85.000, numero raggiunto quando gli scontri divennero intensissimi e, considerando il numero dei fucilati, uccisi in combattimento e i prigionieri, non sembra inverosimile parlare di circa 400.000 combattenti.


Oltre i combattenti, caddero numerosi, spesso senza ragione se non la colpevolezza di vivere nello stesso territorio dei briganti, migliaia di inermi civili. Donne, bambini, uomini anziani.
Massacrati, violati, bruciati vivi, depredati di affetti e averi.

Paesi rasi al suolo, con i loro abitanti, come accadde a Pontelandolfo e Casalduni, che dovevano servire a dare un esempio a tutti. 

I primi anni dell'Unità d'Italia furono, in sintesi, non gloriosi, ma pregni di inciviltà e violenza, spesso gratuita. 

Come  scrive Giodano Bruno Guerri nel saggio: "Il sangue del Sud", Edizioni Mondadori, si trattò della prima guerra civile italiana. 

Più sanguinosa di quella di Liberazione nazo-fascista. E, ancora oggi, occultata. 

Conoscere i fatti non significa, come alcuni vorrebbero, denigrare l'importanza dell'Unità d'Italia, ma collocarla nel vero contesto storico.
Dando giustizia, seppure postuma, alle migliaia di vittime. 

























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