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Visualizzazione dei post da gennaio, 2010

la tappezzeria - fulmini e tegole (III)

Nonostante viva a meno di cinquanta metri dalla villa dell’architetto, Maria Vigilata, vedova in Orecchio, non si accorge del fumo che rotola nell’aria e arriva alla porta della sua casa in un pugno nero e denso. Nel tardo pomeriggio di questo giorno, mentre le ombre stanno entrando nel paese di Sotto Sotto, Maria in Orecchio è intenta a spiare il soggiorno del suo vicino, dall’altra parte della collina, e le mura in legno coprono ancora il fumo che esce dalla parte opposta. Si trova lì, attenta ai fatti altrui, come del resto è sua abitudine, concentrata nel carpire ogni segreto di Massimo Restauro. Perché lei sa che c’è qualcosa di losco in quest’uomo immorale, tanto da avere trasportato le cose dei morti nella sua dimora. I morti e le loro cose non si toccano, lo ha detto anche don Dino nell’ultima omelia di domenica. I morti hanno il loro territorio e i vivi possono solo essere ospiti transitori e discreti. Che non si mescoli il respiro all’immobilità, la vista alla cecità,

la tappezzeria - onde (II)

C’è una lunga fila di pali bianchi sul molo. I pescatori dicono che si scorgono a miglia di distanza, ma è solo per dare importanza alla spiaggia di Sotto Sotto, che in realtà è un piccolo singhiozzo di sassi prima del mare. Durante il giorno, esiste e non esiste, secondo i capricci della marea. Un faro non c’è mai stato, nonostante le petizioni dell’onorevole Cesare Restauro, che il Signore l’abbia in gloria, uomo tutto di un pezzo, e poi grazie ai silenzi dell’onorevole suo figlio, Massimo Restuaro, che il Signore gli insegni almeno a rispettare le cripte cimiteriali, invece di violarle strappandone le tappezzerie. Massimo Restauro è un palo tra i pali. Lungo e immobile sul molo, avvolto in un cappotto bianco, sembra scrutare l’orizzonte, dove gongolano figure piccole e scure di imbarcazioni da pesca. Sa che la gente mormora a causa di questo strano trasloco e, in effetti, visto dall’esterno, spostare la pregiata tappezzeria di famiglia dalla cripta cimiteriale alla stanza

la tappezzeria - respiri (I)

La suola è usurata dalla frenesia dell’uomo. Da ore il piede striscia sul pavimento della stanza, stordito, avanti e indietro, stop, indietro, stop, avanti e indietro, avanti … L’uomo è un tormento che tenta di ricordare se è vivo. Lo specchio dell’armadio non gli lascia messaggi chiari, lì dentro ci sono solo i riflessi di un letto a baldacchino e di pareti incrostate, brandelli di una tappezzeria su cui spiccano ritratti di uomini e donne. Il balcone non si apre, e non perché sia rotta la maniglia, non perché si siano incrostati gli infissi; non si apre, perché le sue mani senza forza non riescono ad afferrare null’altro che aria. Aria stantia. Aria di morte. Aria morta. La suola aderisce malamente al suolo, finalmente ferma, inclinata verso l’interno del corpo, dove la pressione del cammino è stata maggiore. Non si sente più il fruscio del passo. Silenzio. L’uomo ha visto dov’è finito l’altro piede. Il colore nero brillante della scarpa risalta tra le camice bi

Pianto di Natale

Il pianto dall’altra parte della porta. Continuo, senza pietà. Così intenso da riempire tutto il palazzo. La chiave che annaspa tra le mani per tuffarsi nella ferita della serratura. Uno scatto, il pianto, un altro scatto, il pianto. E finalmente la donna si tuffa all’interno del corridoio, le borse della spesa che precipitano al suolo con tonfi di macigni. - Arrivo – urla – ecco – continua, con l’intenzione di dire “eccomi”, se il fiato non fosse già diventato agonia nell’affannosa corsa sulle scale dal portone al secondo piano. Romilde è il nome di una fiaba. Così aveva deciso sua madre quando lei era nata, fragile e inconsapevole del mondo. Ventisei anni dopo, Romilde è capelli arruffati, sudore che vela occhi, moccio che serpeggia denso da una narice. É continua corsa nella quotidianità. Il lavoro, la casa. Nessun segreto su cui sognare, nessuno specchio su cui soffermarsi per un cenno di trucco. Nessun lieto fine da quando l’uomo con cui ha convissuto l’h

credenza popolare

Ora, che la testa rimanga viva dopo la decollazione, è sciocco e ridicolo pensarlo. Non ci sono pensieri nel ghigliottinato, nemmeno in un istante rapido, nessuna coscienza di essere morto. Il trauma che frantuma il midollo, il sangue che esonda dai tessuti, si chiamano morte rapida e senza ritorno, egregi signori. Pertanto, vi prego, finiamola con questa pagliacciata esibizionistica, dite al boia di smetterla di mostrarvi la testa, e pregatelo, invece, di adagiarmi nel cesto di vimini.

12

Due unghie artigliano il numero dodici. Le loro dita partono dal centro del quadrante bianco. Lunghe, come lame da caccia. E nere, come carne putrefatta. E bitorzolute, come deformate dall’artrite. Hanno un potere oscuro sulla mia volontà, non riesco a smettere di fissarle. Si sono avvinghiate sul numero dodici e da lì non si muovono più. Sfidano il mio sguardo, tormentano il tempo, perché non si spostano. Lancette aliene del mio orologio da cucina. È mezzanotte. È il mio brivido. Perché mezzanotte in punto non è più il giorno prima e non è ancora il giorno dopo; mezzanotte in punto è un orario di sospensione. Una sospensione che non passa. Mi alzo dalla sedia e muovo un passo verso l’orologio aggrappato alle crepe del muro di fronte. Un solo passo. - Dove vai? – sospira lei. Mi blocco, ma non riesco a guardarla. I miei occhi sono dentro le lancette, sul numero che non cambia, e comunque non ho più bisogno di guardare Aurora, so già tutto di lei. So di lei com’era