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Requiem

Requiem

racconto di Giovanni Sicuranza

Tutto quel grigio afflosciato sul tavolo di mogano.

Lara scuote la testa, ma, anche se non le sembra un accostamento appropriato, preferisce non avvicinarsi. L’uomo è entrato nella sua osteria all’imbrunire, inveendo contro qualcuno, ed è andato avanti così, a bestemmiare e maledire e bere vino, fino a pochi minuti prima.

Ora è crollato, inerme, la massa dei capelli sul tavolo lucido, come un enorme gomitolo di polvere grigia.

Lara vede solo questo. Il tavolo appena pulito e l’avventore, che lo ha insudiciato di sputi e, adesso, sicuro, con l’unto dei suoi peli.

Da anni è proprietaria dell’osteria e conosce bene le tipologie di chi entra. Questo lo ha inquadrato subito. Oltre ad avercela con qualcuno, è un bevitore abituale, un “cirrotico”, come li definisce suo marito. E un trasandato, come parlano i suoi abiti rattoppati, la barba incolta, nera, più della notte, a accentuare di più il grigio pallido, lunare, della lunga capigliatura.

Chissà quanti microbi corrono tra la sua pelle, si è ripetuta Lara ogni volta che gli ha servito da bere, attenta a non toccarlo con le mani.

L’uomo è un fagotto che continua a fare scempio del tavolo.

Immobile. Nemmeno russa, si accorge solo adesso lei, con un fremito di stupore. Perché i “cirrotici”, quando crollano, russano così forte da sovrastare le chiacchiere degli altri clienti del bar. Solo che adesso, clienti non ce ne sono.

E’ una domenica di dopo pioggia e sono andati tutti a spintonarsi nei boschi, alla ricerca di funghi. Come suo marito, l’idiota, a lasciarla sola in questo casino.

Distoglie lo sguardo dall’uomo e si incammina, piano, dietro il bancale.

È lucido il suo bancale.

Lara ci tiene all’ordine e alla pulizia. I suoi clienti lo sanno. C’è un servizio di pattine per tutti, quando piove, e, prima dell’uscio, ha fatto unire due zerbini perché chi entra abbia modo di passeggiarci sopra. Chi sporca, dice un cartello sopra la sua testa, paga da bere per tutti o si offre di pulire. In bagno si può andare solo chiedendo la chiave e, ogni volta che qualcuno se ne serve, lei, prima di riprenderla, controlla se il cliente ha urinato fuori dalla tazza.

Quest’uomo è stato qui tre ore, ha bevuto un litro e mezzo di vino rosso, ma non è mai andato in bagno.

Lara ha un brivido al solo pensiero di quale sudiciume avrebbe lasciato la sua vescica. È probabile che abbia non solo il fegato, ma anche il resto del corpo in disfacimento.

Compresa la mente.

Lo dicono, tutti, in paese, che è un po’ tocco. È stato un maestro di conservatorio, si mormora, licenziato proprio per il suo vizio di bere e bestemmiare, ed ora vive di lezioni private, girando tra i paesi della provincia.

Cosa possa insegnare, un tipo così, Lara continua a chiederselo da quando è entrato.

Il groviglio grigio di lui ha uno scatto, il cuore di lei si ferma, la mano bloccata a mezz’aria, lo straccio serrato in mano. Non si accorge che lo sta stringendo a pugno, sopra la sua testa, come se fosse un’arma, percepisce solo un silenzio ancora più denso di prima, perché non sente niente, più niente, ora. Nemmeno il proprio respiro.

Kirye”, bofonchia lui, nel sonno, e si affloscia di nuovo sul tavolo.

Il corpo di Lara, al di là del bancone, si affloscia con lui. Il respiro riprende, veloce, per recuperare il tempo morto, mentre la mano si apre e lo straccio, bianco come un sudario, cade a coprire la distesa dei bicchieri, già puliti.

Kirye”, ha gorgogliato nella palude del vino. Ne è sicura, perché conosce bene questo suono, che l’uomo ha ripetuto da quando è entrato. Così come, tra un’imprecazione e una bestemmia, c’erano altri suoni: “offertorium” e “confutatis” e “agnus dei” e “libera me”.

Lara conosce anche il significato di questi termini. E forse è solo questo il vero motivo per cui quest’uomo, che una volta era un maestro, la turba.

Perché le parole che ha ripetuto le hanno aperto vecchie ferite e il loro sangue inonda il ricordo della donna.

***

“Il mondo è sozzo, il mondo è un porcile”, le ripeteva sempre mamma, la perpetua del parroco, “Il latino ti salva, perché è la lingua dei puri, dei sacerdoti di Dio”.

Nell’anima di Lara è rimasto solo il marchio del primo concetto.

Il secondo si è dissolto già la prima volta che il parroco la prese per “giocare”, all’età di nove anni. Il gioco andò avanti per dieci anni, ancora; la madre approvava, perché quale penetrazione migliore, più beata, poteva ricevere sua figlia, se non quella di un prete?

Anche Lara taceva, perché se sua madre assecondava, e un uomo buono come il prete continuava, allora così era meglio per lei.

Lara si impose di crederlo fino a un giorno di novembre.

Pioveva, pioveva fitto, il giardino della chiesa era una palude. Lei stava attenta a dove mettere i piedi, a non sporcarsi, ma il prete le arrivò addosso, da dietro, e la schiacciò a terra con tutto il suo peso. Un peso di omaccione, gonfio dei cibi di mamma.

Lara ricorda ancora il sapore umido e denso del fango nella bocca, nelle narici, mentre solo una minima parte del suo corpo si accorgeva del sant’uomo che cercava di sollevarle la gonna, che graffiava sulla carne per strappare le mutande.

La pioggia, fitta, senza tregua su di lei, come tante dita fredde a palpeggiarla, sui capelli, sul viso, sulle braccia. Il fango che la penetrava e le toglieva il respiro.

Sudicio. Era tutto sudicio. Sua madre mentiva. Il prete era un falso. Un porco degno del fango che la costringeva a ingoiare.

La notte dopo la pioggia era scomparsa. Il prete voleva andare in città, ma non aveva potuto perché “la cretina della perpetua” aveva dimenticato di fare il pieno all’auto. La perpetua aveva protestato, perché era sicura di avere riempio il serbatoio di benzina. L’uomo di Dio l’aveva liquida con una bestemmia e si era chiuso in camera. Faceva sempre così, ogni volta che era contrariato, spariva in camera fino al giorno dopo, se non c’era messa. E quel giorno messa non c’era, quel giorno c’era solo la morte di Lara, la sua sporca solitudine che soffocava corpo e mente in emozioni di fango.

Incendiò la casa poche ore dopo, spargendo benzina lungo la porta della stanza del prete e nel salone. Quando tornò a casa, dalla madre, a pochi isolati più in là, iniziò a pulire con straccio e aceto l’argenteria dell’ingresso, in silenzio, e non smise nemmeno quando i bagliori delle fiamme illuminarono il corridoio a giorno e sua madre corse fuori urlando e insieme a lei si misero ad urlare anche le sirene dei pompieri e dell’ambulanza.

Due giorni dopo, in presenza del Vescovo, il prete ebbe l’onore di una messa cantata. Il canto affascinò Lara per quanto era soave. Pulito.

“È il Requiem di Verdi”, Lara sentì dire da un giovane sconosciuto a sua madre, seduti accanto nella fila davanti. Poi lui si voltò e lei vide in volto per la prima volta quello che sarebbe diventato suo marito. Anche il suo sorriso era pulito.

Il padre di lui morì un anno dopo e lasciò ai novelli sposi la gestione dell’osteria del paese.

Lara la odia. Questa taverna di gente grezza, che si trascina qui dopo il lavoro, già con fetori etilici e di sudore, con lanugine di polvere sui vestiti. Gente che parla sporco. Gente che la deride per la sua mania delle pulizie. Anche suo marito, che in casa pretende ordine, qui si corrompe.

“È un lavoro di merda”, le dice, “tanto vale farlo nella merda”.

Già, poi tanto tocca a lei sistemare tutto, mentre lui sparisce con gli amici. Come ora, in giro a infangarsi nel bosco per cercare funghi.

***

Così, eccola, sola, con il maestro del conservatorio. Con questo derelitto d’uomo, che ha perso ogni dignità, che sporca non solo il tavolo, ma anche un’opera come il “Requiem”, biascicandone i titoli tra le nebbia alcoliche.

Lara ha riconosciuto suoni puliti tra le sue imprecazioni.

Kyrie”, “Confutatis”, e gli altri suoni in latino pronunciati dall’uomo, sono i titoli del “Requiem” di Giuseppe Verdi.

Dalla messa per la morte del prete infame, per lei la purezza del mondo è rimasta solo in questa opera, che ha ascoltato migliaia di volte.

Sola, nella piccola casa ordinata, già ipotecata dalla vita sregolata del marito, Lara smarrisce piacevolmente i suoi sensi, lasciandosi andare sulla poltrona, mentre le mura si riempiono dell’opera. La Messa di Requiem è il lavoro più sublime, più puro, di Giuseppe Verdi. Lui, sì, un grande Maestro, incorruttibile. Quando nel 1873 morì Alessandro Manzoni, Verdi ne fu scosso. Manzoni si era impegnato per l'unità di Italia, avvenuta pochi anni prima, e condivideva con lui i valori del Risorgimento, di giustizia e libertà. In suo onore, e seguendo questi principi, il Maestro creò la Messa da Requiem.

Lara stringe le labbra e socchiude le palpebre sul fagotto immobile sul tavolo.

Questo sudicio omuncolo, questo beone fallito, insozza la Messa, la sua Messa. L’unico rifugio di purità che le è rimasto.

Un respiro lungo, fino a invaderle ogni alveolo polmonare, e poi risalire veloce nella mente e la donna capisce che non può permettere che qualcuno la violi ancora.

Per un istante lo sguardo cade sullo straccio bianco che le è caduto dalla mano, a coprire le lapidi trasparenti delle file ordinate dei bicchieri, ma poi scivola subito al coltello che suo marito usa per tagliare i salumi.

Ancora unto.

Il suo sguardo sale dal bancale all’uomo addormentato sul tavolo. E con lo sguardo, sale il coltello.

Lara conosce tutti i motivi dell’opera di Verdi. Sa qual è il titolo dell’ultimo atto del “Requiem”.

- Libera Me – sussurra, le labbra che si aprono in un sorriso bianco. Pulito.




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