La paura del cadavere ha radici preistoriche, di superstizione e rischio effettivo di contagio, che hanno attraversato i secoli e le varie culture, con diverse sfumature, ma con tratti importanti in comune, e che ancora oggi sono a fianco dei nostri morti.
Innanzitutto, ricordo che la perdita del proprio caro genera quasi sempre ul senso di colpa. Senso di colpa perché, in qualche modo, avvertiamo delle manchevolezze nei confronti del defunto. Si intenda, manchevolezze non sempre reali, non sempre effettive. Manchevolezze sfumate, come “avremmo potuto fare questo viaggio, potevo anche deciderlo prima”.
Da qui il senso di colpa, figlio del primo aspetto che il cadavere suscita in noi: la sua anima potrà tornare per tormentarci?
I principali destinatari di un’eventuale vendetta del defunto sono i familiari, e ancora prima, i familiari più stretti, che con lui hanno potenziali o veri “conti in sospeso” (nel senso di cui sopra, ovvero i sopravvissuti sentono di avere qualcosa in sospeso).
L’anima del proprio caro che diparte, inoltre, si porta via una parte di noi, perché non siamo isole isolate, ma arcipelaghi costruiti in interrelazioni. E quando un arcipelago si inabissa nelle profondità scure dell’oceano, di quell’arcipelago anche una parte di noi fa parte.
L’anima mantiene dunque uno stretto legame con noi.
Ma perché l’anima è potenzialmente malvagia, vendicativa?
Perché ha vissuto nel corpo e il corpo con la morte non si spegne, ma continua a vivere in un modo a noi oscuro, trasformandosi in qualcosa di orribile ai nostri occhi. È la tanatometamorfosi, con particolare riferimento alla putrefazione.
Se il corpo si abbruttisce, si abbruttisce anche l’anima.
E l’anima può fare ammalare. L’anima può persino uccidere.
Non è solo un lato della nostra ancestrale superstizione.
È verosimile che questo sia davvero avvenuto a chi, agli albori della civiltà, o anche successivamente, in fase di sovraffollamento, di epidemie, di guerre, si sia trovato accanto a un corpo in putrefazione. È verosimile che il contatto con i liquidi del cadavere, magari attraverso una piccola ferita, abbia causato nei sopravvissuti gravi malattie, fino alla morte.
Da qui la convinzione radicata che l’anima del defunto, mentre il suo corpo si corrompe, sia altrettanto corrotta e vendicativa.
Non a caso nella superstizione del cristianesimo, le anime dei Santi, incorruttibili, lasciano ai credenti corpi che non vanno incontro alla trasformazione putrefattiva.
E, allora, da un lato per placare il senso di colpa del sopravvissuto, dall’altro per assicurare che l’anima percorra un viaggio sereno, senza tornare indietro adirata, ecco che nascono i vari riti di sepoltura. Ogni cultura ne ha accentuato uno proprio, ma, nelle varie culture, tutti sono diversamente presenti.
Il rito serve anche alla società per dare continuità e ristabilire l’ordine, perché ogni decesso è un sovvertimento della sua struttura. Ma ogni decesso omaggiato ne rafforza la tradizione corale.
La putrefazione può essere eliminata con la cremazione, bloccata con la mummificazione o la criogenia; può essere accelerata, per risolvere in fretta il problema, con la diretta esposizione agli agenti naturali; può essere celata, tenuta lontana dal mondo di luce dei sopravvissuti, con la sepoltura e il conseguente pellegrinaggio alla tomba.
Anche la fotografia post-mortem raggiunge questo risultato, permettendo al sopravvissuto di portare sempre con sé un’immagine del defunto, che con il rito è diventato ricordo e nume tutelare, fissandolo per sempre in un aspetto lontano dalla putrefazione.
Questo risultato, seppure non ottimale rispetto alle foto che abbiamo esaminato prima, si ottiene anche nell’immagine riportata (“Donna morta da molti giorni”, F. Gutekunst; 1865 circa), quando, per vari impedimenti, non è possibile intervenire prima.
Ricordo, infine, che il cadavere diventa il protagonista ideale per la fotografia anche per la sua immobilità.
Innanzitutto, ricordo che la perdita del proprio caro genera quasi sempre ul senso di colpa. Senso di colpa perché, in qualche modo, avvertiamo delle manchevolezze nei confronti del defunto. Si intenda, manchevolezze non sempre reali, non sempre effettive. Manchevolezze sfumate, come “avremmo potuto fare questo viaggio, potevo anche deciderlo prima”.
Da qui il senso di colpa, figlio del primo aspetto che il cadavere suscita in noi: la sua anima potrà tornare per tormentarci?
I principali destinatari di un’eventuale vendetta del defunto sono i familiari, e ancora prima, i familiari più stretti, che con lui hanno potenziali o veri “conti in sospeso” (nel senso di cui sopra, ovvero i sopravvissuti sentono di avere qualcosa in sospeso).
L’anima del proprio caro che diparte, inoltre, si porta via una parte di noi, perché non siamo isole isolate, ma arcipelaghi costruiti in interrelazioni. E quando un arcipelago si inabissa nelle profondità scure dell’oceano, di quell’arcipelago anche una parte di noi fa parte.
L’anima mantiene dunque uno stretto legame con noi.
Ma perché l’anima è potenzialmente malvagia, vendicativa?
Perché ha vissuto nel corpo e il corpo con la morte non si spegne, ma continua a vivere in un modo a noi oscuro, trasformandosi in qualcosa di orribile ai nostri occhi. È la tanatometamorfosi, con particolare riferimento alla putrefazione.
Se il corpo si abbruttisce, si abbruttisce anche l’anima.
E l’anima può fare ammalare. L’anima può persino uccidere.
Non è solo un lato della nostra ancestrale superstizione.
È verosimile che questo sia davvero avvenuto a chi, agli albori della civiltà, o anche successivamente, in fase di sovraffollamento, di epidemie, di guerre, si sia trovato accanto a un corpo in putrefazione. È verosimile che il contatto con i liquidi del cadavere, magari attraverso una piccola ferita, abbia causato nei sopravvissuti gravi malattie, fino alla morte.
Da qui la convinzione radicata che l’anima del defunto, mentre il suo corpo si corrompe, sia altrettanto corrotta e vendicativa.
Non a caso nella superstizione del cristianesimo, le anime dei Santi, incorruttibili, lasciano ai credenti corpi che non vanno incontro alla trasformazione putrefattiva.
E, allora, da un lato per placare il senso di colpa del sopravvissuto, dall’altro per assicurare che l’anima percorra un viaggio sereno, senza tornare indietro adirata, ecco che nascono i vari riti di sepoltura. Ogni cultura ne ha accentuato uno proprio, ma, nelle varie culture, tutti sono diversamente presenti.
Il rito serve anche alla società per dare continuità e ristabilire l’ordine, perché ogni decesso è un sovvertimento della sua struttura. Ma ogni decesso omaggiato ne rafforza la tradizione corale.
La putrefazione può essere eliminata con la cremazione, bloccata con la mummificazione o la criogenia; può essere accelerata, per risolvere in fretta il problema, con la diretta esposizione agli agenti naturali; può essere celata, tenuta lontana dal mondo di luce dei sopravvissuti, con la sepoltura e il conseguente pellegrinaggio alla tomba.
Anche la fotografia post-mortem raggiunge questo risultato, permettendo al sopravvissuto di portare sempre con sé un’immagine del defunto, che con il rito è diventato ricordo e nume tutelare, fissandolo per sempre in un aspetto lontano dalla putrefazione.
Questo risultato, seppure non ottimale rispetto alle foto che abbiamo esaminato prima, si ottiene anche nell’immagine riportata (“Donna morta da molti giorni”, F. Gutekunst; 1865 circa), quando, per vari impedimenti, non è possibile intervenire prima.
Ricordo, infine, che il cadavere diventa il protagonista ideale per la fotografia anche per la sua immobilità.
Giovanni Sicuranza
P.S.: “Storie da città di Solitudine e dal Km 76”
(on line sul sito del Gruppo Editoriale l'Espresso “Il mio libro”:
o sul sito on-line della Feltrinelli: http://www.lafeltrinelli.it/;
o ordinabile direttamente presso le librerie “FeltrinellI”)
affronta in parte questo argomento,
che viene più ampiamente delineato nel nascente romanzo.
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