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Lungo il vento - seconda edizione

Magnanimo è un paese sospeso. Sospeso su un monte; sul sangue della Storia; su una catastrofe che ha inghiottito case e persone; su omicidi che tornano dal passato. La sua vicenda si svolge in tre momenti temporali, uniti dal lungo soffio del vento.
1) Durante le ultime fasi della seconda guerra mondiale. Un gruppo di partigiani, comandati dall'eroe Federico Celesti, lotta per la libertà e nel Suo nome non esita ad uccidere civili inermi.
2) Durante la metà degli anni sessanta. Il carabiniere Pasquale Losaccio è nuovo nella Stazione comandata dal Maresciallo Giacomo Guerrini. E' un periodo strano, di cambiamenti, non solo sociali, ma anche per il paese, che già vive nel mito di Federico Celesti. Mentre l'Italia è scossa dalle prime proposte di Legge sul divorzio, a Magnanimo iniziano le scosse di terremoto. Così inspiegabili, così frequenti, da far tacere il vento.
3) Durante i tempi odierni. Valentina Laghi fugge da un passato di corruzioni e da un incidente, che l'ha resa invalida. Ma fugge anche da un amico defunto, che la segue nella mente e nei sogni. A Magnanimo spera di trovare la tranquillità. Solo che la speranza è la prima a morire.

Il romanzo è sul sito "Il mio Libro", Gruppo Editoriale L'espresso, al link:


 

Un'anteprima

" I paesi della vallata agonizzano nelle ferite profonde della guerra civile.

Gli abitanti sono ancora rintanati nel buio delle case, braccati da lutti e vendette. Nessuno osa addentrarsi di nuovo nel bosco, fitto spargimento di ombre e nebbia che si arrampica sulle montagne.

Nemmeno oggi, nel tradizionale inizio della stagione della caccia, di solito evento tanto atteso da chiamare a raccolta tutte le famiglie, da innalzare al vento selve di bicchieri di vino rosso e coralità di canti in dialetto.

Oggi non ci sono più famiglie unite, oggi al posto del canto c’è il dolore e al rosso del vino è subentrato quello del sangue.

La vallata è frammento di morte e terrore.

I tedeschi sono scomparsi, ma il vicino no.

E il vicino è il nemico più terribile.

Non dichiara ostilità.

Guarda e spara.

Per la Repubblica Sociale, per il Regno d’Italia, per l’Italia democratica, per quella comunista.

O perché il suo orto è più povero.

Oggi la gente della vallata è gregge tremante nel recinto della chiesa.

Le bare sono allineate in un unico serpente scuro e senza respiro che dalla navata centrale scivola verso l’uscita.

Don Dino ha le braccia protese in alto, e in alto, sopra di loro, c’è il bosco, non il cielo.

La gente prega che il parroco abbia le parole giuste per riportare la vita, che questi siano gli ultimi morti di una guerra senza bandiere.

Don Dino prega e soprattutto spera.

Anche se sa di avere appoggi tra i militari e i politici, spera che la sua gente non sappia mai nulla. Che nessuno intuisca la necessità di questi morti.

Prega e intanto la mente corre.

Nel bosco, tra il vento e la nebbia.

Dove si nascondono i guerrieri.

***

Bussano alla porta.

Ad ogni colpo l’uomo e la donna si lanciano occhiate rapide, dove c’è tutto. Il silenzio, il dolore. E la rassegnazione.

- Era meglio se andavamo anche noi in chiesa – bisbiglia lei, in un soffio così fragile da essere spezzato dalla percussione veloce sul legno della porta.

L’uomo scuote la testa, afflosciata sul petto, come il corpo sulla sedia. E tace.

Le penombre del tramonto cadono pesanti sul suo profilo e trascinano nel buio brandelli di arredamento e di vita.

- Ti prego, falli smettere – implora allora la donna, seduta sul pavimento di legno, le spalle sullo stipite dell’ingresso della cucina – Ti prego, Ascanio.

L’uomo solleva la testa e lo fa con un sospiro lungo, come se il gesto gli costasse un’energia che non possiede.

Bom bom tuona la porta.

- Sei sicura? – chiede, scrutando il profilo della donna attraverso le ombre.

Sì, annuisce lei, chiudendo gli occhi.

Anita cerca angoli di serenità nella sua mente pesante di morte. Vorrebbe stringersi ad Ascanio, il suo uomo, ma sa che lui ora deve affrontare gli ultimi istanti della loro vita.

E mentre ne ascolta i passi scricchiolare sul legno, verso la porta, richiama il volto del figlio con il rammarico assoluto di chi sa che non potrà rivederlo. Ettore si è ribellato al progetto, forse è già morto, e non c’è null’altro in attesa per i suoi genitori.

Anita è inondata dal pulsare sofferto del sangue nelle arterie. Non c’è posto per respirare ancora, nemmeno per sentire quello che accade intorno a lei. Ettore e il nulla cadono nei pensieri e diventano il mondo.

I cardini della porta esplodono mentre l’uomo sta terminando di girare la chiave nella serratura. Schegge di legno feriscono l’aria e fuggono nell’ombra.

Anche se di bassa statura, Ascanio è massiccio, temprato dai lavori nei campi e dalla guerra, ma l’energia della porta divelta è forte abbastanza da trasformarlo in un fuscello nell’uragano. Cade all’indietro, la testa che solo per un soffio non incontra lo spigolo del tavolo, anche se forse sarebbe stato meglio.

Il primo particolare che riempie la sua vista è il luccichio, poi ci sono profili lunghi che dal soffitto si abbassano su di lui e rimangono a fissarlo con occhi neri.

Sa che è proprio fuori luogo, ma non può fare a meno di sorridere riconoscendo in quelle sagome i fucili dei suoi compagni di caccia.

- Alzati, Ascanio! – gli intima una voce dietro gli occhi vuoti delle canne.

- Ciao, Federico Celesti.

- Ti ha riconosciuto – osserva dall’ombra un’altra voce.

- E allora? – replica Federico, deciso - Mica dobbiamo nasconderci. Siamo i soldati della Patria!

Un fucile si allunga verso il volto di Ascanio, fino a sfiorarlo con il metallo e a premere nella carne. L’uomo ha una smorfia, mentre realizza allo stesso tempo che l’arma è ancora calda ed emana esalazioni di sparo.

- Dov’è mio figlio? – chiede, la testa girata di lato dalla pressione del fucile sulla guancia.

- Ti ho detto di alzarti, cazzo! – la canna preme ancora di più sulla pelle.

Ascanio cerca Anita e quando la vede si pente di averlo fatto. La moglie è immobile, come un fagotto già senza vita, il volto reclinato sul petto e celato dal sudario dei lunghi capelli neri.

Anche gli altri devono avere guardato con lui. Sente passi muoversi in fretta e un’ombra entra nel suo campo visivo, dove vorrebbe non ci fosse nessun altro tranne la sua donna.

- Lasciatela stare – riesce a parlare, deciso, nonostante il fucile stia scavando nella sua guancia.

L’ombra si ferma, fa un altro passo verso la donna e ancora si ferma.

- Vieni con noi, allora? – chiede chi regge l’arma che affonda in lui.

Ascanio annuisce piano, quel tanto che basta a fare oscillare la canna insieme alla guancia. L’altro avverte il movimento e allenta la presa.

- Alzati – ripete.

Ascanio non smette di guardare la moglie, chiusa nell’ultimo angolo delle sue speranze. Cerca di sollevarsi, ma un morso sembra trattenerlo al pavimento. Sospira e si volta di nuovo verso le ombre.

- Dovete aiutarmi. Mi sa che nella caduta mi sono rotto un polso.

Quattro o sei mani si gettano su di lui e lo sollevano, veloci. Ascanio serra le labbra sulle fitte del dolore e l’istante dopo si ritrova in piedi, mentre gli uomini continuano a stringerlo.

La canna che gli ha azzannato la guancia ora guarda il suolo.

- Dov’è mio figlio, Federico?

Silenzio.

Ascanio socchiude le palpebre. Non gli interessa sapere quanti sono gli uomini che lo tengono fermo, cerca solo di penetrare il buio, per scoprire il volto del suo amico di infanzia, del suo compagno di caccia. Del padrino di suo figlio.

Un passo e finalmente Federico diventa realtà.

- Ettore è testardo, lo sai – l’amico avvicina ancora di più il volto a quello di Ascanio - E permettimi di aggiungere che non gli avete insegnato i giusti ideali.

Nessuna emozione nei suoi occhi, nessuna incertezza nelle sue parole.

Ascanio ha ancora la lucidità di riconoscere l’alito pieno di carie ed alcol; così intenso e familiare che anche ad occhi chiusi potrebbe conoscere il nome del suo carnefice.

- Invece dovevate pensarci voi ad educarlo, vero? Con la vostra verità di morte.

- Ehi – lo ammonisce una voce alle sue spalle e subito una nuova fitta di dolore salta dal polso al cervello. Ascanio geme e si piega su se stesso, sorretto solo dalle mani che lo imprigionano.

- Lasciatelo.

- Cosa? – mormora la voce, stupita, ma già le mani esitano sul prigioniero.

- Lasciatelo – ripete paziente Federico – Non tenterà nulla.

Ascanio si ritrova libero e il suo corpo fa subito l’unica cosa che desidera, precipitando nell’unica sedia del corridoio. La paglia e il legno cigolano di protesta.

Federico si china fino a portare il viso all’altezza dell’amico. Il suo alito avvolge ancora Ascanio e porta ricordi di sveglie all’alba, di giornate trascorse in trattoria, tra risate e bevute, prima di entrare nel bosco per la caccia.

Ma ora Federico è espressione distante, i suoi grandi occhi chiari sono ampolle sconosciute in cui non è possibile trovare tracce di quei giorni.

- Ti faccio una promessa, Ascanio – mormora – La nazione che verrà dopo di te, dopo il buio, sarà fiera e unita.

- Dovè Ettore?

Federico corruga la fronte e si alza in piedi. Dall’alto, continua a guardare negli occhi Ascanio e intanto scuote la testa.

- Sei il solito. Sempre chiuso nel tuo mondo piccino. Per questo hai perso.

- Dobbiamo sbrigarci – lo interrompe la voce dell’ombra accanto a Anita.

Federico è lesto. Alza la canna del fucile e la punta nella sua direzione.

- Non mi dire cosa fare – poi torna a girarsi verso il prigioniero. E sorride, mentre l’arma rimane tesa verso l’ombra in cucina.

– Vedi, qui ora sembra tutto un casino, ma il disordine è necessario per il nuovo mondo.

- Ettore e Anita non c’entrano nulla, lo sai – Ascanio fa per alzarsi dalla sedia, ma una mano scivola alle sue spalle e gli afferra il polso gonfio. La mente dell’uomo è accecata da un fulmine bianco.

- No! – urla, il polso ancora nella morsa della mano nemica, innalzato come un punto esclamativo sopra il resto del corpo precipitato al pavimento.

Ritrova il respiro, ritrova il respiro, ritrova si accavallano le parole nella mente di Ascanio, ma la realtà è che tutto è perso, la realtà è solo il dolore che lo paralizza.

Eppure riesce ancora ad aprire gli occhi, pieni delle suole degli stivali da caccia dell’amico. E a sentire le sue parole che cadono dall’alto. Quasi dolci, assurdamente tenere.

- Se mi prometti che farai il bravo, se mi prometti che verrai con noi senza tentare nulla, ecco, ti do la mia parola che tua moglie sarà libera.

Ascanio vede il fango sugli stivali, fango ancora fresco, gonfio come una carcassa putrefatta, da cui spuntano steli d’erba simili a peli verdi.

La punta di uno stivale gli sfiora il viso.

- Hai capito cosa ho detto?

- Ettore? – insiste l’uomo sconfitto.

Lo stivale si ritrae.

- Accontentati della mia parola.

Ascanio chiude gli occhi, ma l’immagine dello stivale e del fango rimangono nella mente. Annuisce.

- Bene. Tiratelo su, senza fargli male.

Ascanio è trascinato fuori dalla porta.

Gli occhi ancora chiusi, non si accorge dell’ombra che è rimasta accanto alla moglie e che inizia a stringere le mani intorno al suo collo.

***

Gli occhi sono spalancati di paura, ma tutto intorno è buio.

Ettore ha già avuto miliardi di respiri affannati per pentirsi di avere abbandonato la bici, la direzione di casa, e avere proseguito a piedi nel sentiero, incontro al verso del tordo che riempiva il bosco, un suono che per lui ha un nuovo significato.

Ettore conosce i combattenti della libertà.

Sa che il verso del tordo è diventato il loro richiamo, per questo aveva deciso di seguirlo. Però le cose non erano andate come sperava.

Quando li aveva raggiunti, i guerrieri avevano interrotto il verso e lo avevano guardato.

Tutti. Ostili.

“I tuoi genitori sono nemici del popolo”, gli avevano detto.

E subito si erano schierati in un muro di corpi e armi che gli aveva impedito di vedere il cadavere steso tra i rami. Forse un fascista, si era chiesto Ettore, cercando di sbirciare oltre la barriera, forse un traditore.

“Sei tu il traditore”, lo avevano accusato gli altri, di rimando, “Vigliacco”.

Non è vero, aveva pensato, non è vero, sono qui, prendetemi con voi nel gruppo, ma la paura gli chiudeva le labbra e lui continuava ad urlare nella mente, fino a quando qualcuno aveva indicato i suoi pantaloni, in mezzo alle gambe. E si era messo a ridere.

“Vigliacco, vigliacco pisciasotto, vigliacco”, si erano alzate le voci e allora Ettore si era bloccato del tutto, anche nei pensieri, perché quelle erano le parole di suo padre.

La stessa frase con cui lo canzonava quando non voleva scendere nell’oscurità della cantina per ripararsi dalle bombe, quando si svegliava urlando tra le lenzuola bagnate di piscio e sudore dopo sogni di morte. E quando aveva vomitato mentre lui scuoiava Bigio, il loro gatto, e la mamma preparava il pentolone per il pranzo.

Maledetto suo padre per avergli impedito di unirsi ai guerrieri prima che fosse tardi, maledetto perché non era mai riuscito a ribellarsi alla sua voce.

I guerrieri gli erano saltati addosso, gli avevano legato polsi e caviglie. Poi un sacco era calato sul suo viso.

Ma non sulle orecchie.

Ora, steso sull’erba umida, ascolta nel buio, sopra il suo respiro veloce.

Sono arrivati i capi dei guerrieri, questo lo ha capito, perché ha riconosciuto il rombo della moto di Federico, il grande amico di papà.

Per Ettore, Federico è come uno zio.

Lo ha portato a caccia, gli ha insegnato a costruire l’archetto per la cattura degli uccelli, a riconoscere i funghi buoni e gli asparagi migliori. E il mese scorso, quando ha comprato la moto Guzzi 65, Ettore è stato il primo a salirci sopra.

“Salta sulla Gusì”, gli aveva detto lo zio Federico, ridendo, forse per il nome dato alla moto, “Dai che andiamo a liberare il mondo”. E poi via, tra i sentieri del bosco, tra i campi, il vento che soffiava forte nei capelli e nelle orecchie, il mondo che sembrava davvero tutto libero per loro, invincibili su quella moto leggera.

“Non farlo più”, lo aveva ammonito suo padre, cupo come sempre, lo sguardo perso oltre la finestra, quando la sera aveva raccontato tutto, “Non ti azzardare mai più ad allontanarti con lui”.

Ora invece, perso nel sacco nero, sente che lo zio è arrivato, che presto lo libererà, come hanno fatto insieme con il mondo, quel giorno sulla Gusì.

Per un istante gli è sembra persino di riconoscere la voce di suo padre, un sussurro soltanto, seguito da un lamento. Ma sa di essersi sbagliato, papà non può essere lì.

Da mesi gli ordina di tenersi alla larga da Federico e dai “suoi fanatici”, di rimanere piccolo e silenzioso finché non la gente non smetterà di scomparire.

Ettore però non capisce. Vuole bene allo zio Federico e gli piace la sua risata.

Non gli è mai sembrato un “fanatico”, qualunque brutta cosa significhi. No, no, nulla è brutto nello zio Federico.

Nemmeno la brigata dei guerrieri che gli ha presentato qualche settimana prima, tra le macerie della scuola.

“Ecco i padroni del mondo”, gli aveva detto quel giorno lo zio, gli occhi chiari che splendevano sotto le nuvole, “Se mi dai retta, un giorno anche tu sarai come loro”.

Anche quel giorno, quando aveva scoperto cosa era accaduto, papà si era arrabbiato. Arrabbiato davvero.

Gli aveva ordinato ancora quella di stare alla larga dallo zio Federico fino alla fine della guerra, solo che lo aveva fatto urlando, rosso in viso, poi aveva bofonchiato qualcosa a sua madre, qualcosa in cui c’entrava ancora la parola fanatico, ed era uscito di casa sbattendo la porta, il fucile in mano.

Di quel pomeriggio, Ettore ricorda il silenzio della mamma e il ticchettio lento dell’orologio sulla parete, finché, poco prima di cena, papà era tornato.

“Ci siamo chiariti”, aveva detto a sua madre e sembrava calmo.

“Ma il prete cosa dice?”, gli aveva chiesto lei, il viso un po’ più vecchio di prima.

“Ci proteggerà”, aveva risposto laconico lui, gli occhi oltre la finestra della cucina.

Nient’altro.

Si erano seduti a tavola, come sempre avevano pregato per la fine della guerra, e avevano cenato a base di Bigio e patate.

Nel silenzio, solo Ettore, confuso, sembrava essersi accorto che il padre era tornato senza fucile. Ma non aveva osato fare domande.

Non osa farne nemmeno ora.

Anzi, quando sente due spari spezzare l’aria in rapida successione, cerca di non respirare nemmeno.

E trattiene il fiato anche dopo, nonostante riconosca il rombo rassicurante della moto dello zio Federico.

Ormai deve attendere poco, si rassicura. Se lo zio non l’ha ancora liberato, sarà perché prima deve parlare con gli altri. Ma lui è uno dei capi, un mito dei guerrieri, e sa come farsi obbedire.

Le parole che ascolta sono in gran parte incomprensibili, però deve trattarsi di qualcosa di importante, perché tutti parlano velocemente, accavallandosi, anzi, c’è chi sembra agitato, forse persino come lo è lui.

Fino a quando la voce di suo zio si alza sopra le altre, bella e decisa.

Spiega della necessità di giustiziare chiunque non si schiera con loro, o qualcosa del genere, non importa. Il fatto è che parla e parla, mentre il respiro di Ettore rallenta, affascinato.

- E al ragazzo cosa diciamo?

Ettore smette di respirare.

Non solo ha capito che ormai si sono accorti di lui, ma ha anche riconosciuto la voce nuova. Ed è stupito.

Papà gli ha raccontato che il prete condanna la guerra, da qualunque parte, e che loro devono prendere esempio da lui.

Invece Don Dino è tra i guerrieri.

Non ha tempo di ricominciare a respirare, perché l’attimo dopo si rende anche conto che qualcuno si è avvicinato. Senza parlare, ma veloce.

Rimane in silenzio, il cuore che galoppa fino alla gola, e non sente voci.

Eppure Ettore è sicuro della presenza al suo fianco. E all’improvviso intuisce anche un altro particolare: nonostante le radici e i sassi, non ha sentito il suono dei passi verso di lui.

Allora smette di riflettere, smette di ascoltare e diventa solo panico che cerca di ritrarsi il più possibile su se stesso, di rannicchiarsi sul tronco dell’albero dove lo hanno lasciato, se è possibile di entrare dentro la corteccia.

E quando avverte una mano posarsi sul capo, la mente di Ettore urla.

Urla anche se sa che si è appena pisciato addosso e che rischia di farlo di nuovo, urla perché non comprende nulla di quanto sta accadendo, urla perché papà gli detto che lo zio che adora non è una brava persona, urla perché un prete che predica di allontanarsi dai guerrieri è tra i loro capi.

Urla fino a quando il buio che lo avvolge non entra anche nella sua mente e lo porta lontano.

Forse in un mondo dove tutto è ancora come prima della guerra "






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