Per quanto puntualizzato nel precedente post sulla tanatometamorfosi, non sorprenda che la fotografia del defunto acquisti un significato magico e simbolico particolare rispetto alla foto scattata allo stesso corpo ancora in vita.
La fotografia post-mortem è il ponte tra il proprietario del ritratto e l’anima del defunto, a patto di non aggressività stabilito, in assenza della trasformazione putrefattiva. Al subentrare, anzi, di un influsso benefico del caro estinto.
È l’immagine dell’anima, complementare del corpo morto.
E, poiché l’immagine cattura il corpo, è anche una sorta di potere che acquisiamo sull’anima.
Non sorprenda nemmeno che la maggior parte delle foto abbia come protagonisti i bambini.
La fotografia post-mortem, come visto, nasce nella prima metà del XIX secolo e nella fase dell’industrializzazione trova il massimo splendore (pur continuando, con enfasi minore, anzi, con pudore, nascosta, ad oggi).
Epoca in cui la mortalità infantile è ancora molto alta.
Inoltre, tornando ancora al discorso precedente sulla tanatometamorfosi, diventa ancora più pressante liberare il cadavere del bambino dall’ira che può avere verso i sopravvissuti per tutto quanto poteva essere, per tutto quanto poteva avere e invece gli è stato negato su questo mondo (il senso di colpa dei genitori in questo senso è molto forte e si proietta nella paura del rancore del figlio defunto).
Non da ultimo, la fotografia post-mortem del bambino è un’arma potente contro l’oltraggio della putrefazione che altera, orribilmente, i lineamenti delicati dell’infante.
Nella foto: “Famiglia religiosa con figlia in rosso”; anonimo; 1848.
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