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Storie dal km 76 - I nostri defunti

Storie dal km 76

I nostri defunti

racconto di Giovanni Sicuranza


L’agriturismo tace.

Solo il cartello all’ingresso recita ancora, la voce sbiadita di rosso, “Benvenuti al Km 76”.

Varcata la soglia, il giardino diventa una chiazza di marciume e putredine, che copre il verde e lo rende scuro, cupo.

Le pareti in legno della struttura traballano tra edera e muffa; i pilastri di basalto si ergono ancora, neri, bastoni della loro stessa solitudine. In veranda è rimasto un tavolo, anch’esso in legno; lungo, spoglio di tovaglia e commensali. Gli insetti lo percorrono, veloci, come se fossero su un’autostrada.

Due anni sono bastati per questo sfacelo.

Osvaldo, detto “il Breccia”, sospira, la mano che esita sulla maniglia dell’ingresso principale. Brandelli di ragnatela la decorano, o forse la rinforzano.

L’uomo spinge, come aspettandosi resistenza, ma la porta si apre, docile, senza gemere.

Il gemito arriva invece dal Breccia. Una cappa di marcio e chiuso gli crolla addosso e lo tiene stretto, costringendolo a un respiro profondo, che peggiora il senso di oppressione.

Gli occhi corrono veloci alle serrande di una finestra dalla parte opposta della sala, ma le gambe sono diventati nuovi pilastri di roccia.

Pensa, il Breccia, ricorda che l’agriturismo era il punto di ritrovo di tutta la provincia fino a due anni prima.

- Prima – sussurra quest’uomo curvo, canuto, la voce roca di fumo – Prima – ripete, dopo un’altra boccata deteriorata. E mentre finalmente le gambe si convincono e lo portano alla finestra, impreca per la morte che ha violentato il suo agriturismo solo due anni addietro.

C’è stato un omicidio proprio qui. Un ragazzo ucciso durante la festa di compleanno, massacrato dagli amici. Coltellate per ogni anno compiuto, coltellate che hanno determinato la fine del “Km 76”. Sangue dappertutto, il giardino imbevuto di morte, il locale chiuso, sotto sequestro per mesi. Un tumore di infamia e maledizione che ha spento l’agriturismo.

Le dita attanagliano il chiavistello delle persiane, spingono in alto e lanciano fitte di dolore che sorprendono il Breccia. Il chiavistello è testardo, oggi più della porta, non si muove. Lui spinge ancora in alto, vagamente stupito, con entrambe le mani. Il legno gonfio stride e le persiane si spalancano in uno schiocco di fratture. E il Breccia è piegato in due, sotto la finestra, le dita che urlano, il sangue che scivola dal pollice sul polso, caldo. La scheggia di legno verde che gli ha aperto la carne sembra un sesto dito. Lui la fissa tra fessure di dolore, un dolore più profondo, più lontano della ferita.

“Prenotiamo, la prego, assolutamente, ci metta anche in un angolo, ma non vogliamo perderci il pranzo da voi”. “Complimenti. Per il cibo. E, ah, certo, anche per il posto. Incantevole”. “E per i prezzi”. “La carne, poi”. “Ah, saporita, speciale”.

I denti del Breccia afferrano l’estremità libera della scheggia. Non c’è tentennamento quando la testa si solleva e porta in aria il legno con filamenti di sangue. Poi la nuca trova riposo sulla parete fredda di roccia, gli occhi si chiudono e il sibilo del respiro è l’unico suono dei ricordi.

La carne era il pezzo forte dell’agriturismo. Al “Km 76” si veniva per assaporare tutto, dagli antipasti al fegato con cipolle, alla pasta con pancetta, al cinghiale allo spiedo. La gente prenotava anche un mese prima, per essere sicura di trovare posto, perché nei suoi dieci anni di vita, l’agriturismo aveva conquistato i palati non solo del circondario, ma era diventato il ristoro “da non perdere” delle guide turistiche.

Il Breccia e il suo “Km 76” erano citati nei giornali locali almeno una volta alla settimana; era stato intervistato anche da RAI3; una giornalista bionda, carina, con la “erre” moscia, ne aveva declamato le doti nel suo programma sulla natura. Lui ora non ne ricorda nemmeno il nome, solo gli occhi splendidi d’azzurro. E quella domanda: - Perché la chiamano il Breccia?

Non c’era stata risposta. Forse aveva sorriso, imbarazzato, forse aveva alzato le spalle, chissà.

Però qualcuno dei dintorni lo sapeva. Sapeva che molta di quella carne prelibata era di frodo. Il Breccia era abile a costruire trappole, che fossero legali o meno non era un suo problema, lui seguiva istinto e destrezza, cacciatore contro preda, e sapeva come fare breccia nell’astuzia dell’animale. Del resto non era solo nelle scorribande. Il suo amico Terenzio, detto “il Muto”, aveva poche parole, ma tanta capacità di attendere la preda per ore. Immobile.

L’uomo che un tempo era il Breccia apre piano gli occhi. Per un attimo pensa di controllare la mano ferita, che dal pavimento martella le vene e morde i nervi, ma la sua attenzione va alla parete che si srotola di fronte, ora illuminata dalla luce pallida del primo inverno.

- Sì – annuisce, i denti che si incontrano in una morsa per lo sforzo di sollevarsi. La schiena scivola in alto, sorretta dalla roccia, si graffia e continua a salire, ignorata come la mano. Quando è quasi in piedi, le ginocchia appena flesse, l’uomo si piega su se stesso e tira fuori il vero dolore.

Lacrime. Singhiozzi. Lacrime.

Eri il Breccia dell’agriturismo al “Km 76”. Sei un morente nella casa dei defunti. Decadenza di carne e dignità.

Decadenza che in realtà aveva avuto poco prima dell’omicidio del ragazzo.

Cinque anni prima, dove il palo telegrafico segnala il chilometro 76 per chi viene dalla statale che lambisce il paese, ci fu un altro omicidio. La figlia del suo amico Terenzio.

Il suo fidanzato le spalmò il cervello lungo il palo.

Terenzio perse non solo l’unica figlia, ma anche le poche parole che gli rimanevano. Cominciò a seguire l’assassino ovunque, come un’ombra, e la caccia, e il resto del mondo, e il Breccia, entrarono nel silenzio di una vita superflua.

L’assassino morì poi, non per mano del cacciatore, ma in un disastro ferroviario. Quella stessa notte fu l’ultima volta in cui il Muto gli parlò.

Mentre le lacrime bruciano il viso, e le gambe cercano le forze per alzarsi del tutto e raggiungere la parete di fronte, il Breccia ricorda ancora ogni particolare del loro incontro.

È sera, stormi di pioggia picchiano sul tetto dell’agriturismo. Giorno di chiusura, per fortuna, altrimenti pochi si azzarderebbero a penetrare nella campagna. Ma forse sarebbe meglio così, perché da quando il Muto ha smesso di accompagnarlo nelle battute di caccia, la carne è ridotta.

Il campanello, improvviso, inizia a suonare, con insistenza, un richiamo così metallico e stridulo, da sembrargli fuori luogo nella malinconia della campagna e del suo umore. Apre con fastidio, un fastidio lasciato subito fuori, ad annegare nella pioggia, quando scorge il suo amico. Il soprabito bagnato, nero, il cappello a falde larghe, scuro, che non riesce a nasconderne l’espressione. Dagli occhi al vestito, tutto nel visitatore è cupo.

- Chiudi – gli dice il Muto. Un ordine.

Il Breccia obbedisce.

Il Muto raggiunge la cucina, lo sguardo fisso davanti, come a seguire qualcosa o qualcuno. Poi si ferma, in piedi, accanto al tavolo. Il Breccia lo raggiunge senza parole, il cuore gonfio di angoscia e domande. Ricorda, vede, gocce di pioggia clandestina che abbandonano l’amico per raggiungere il pavimento.

- Lui è morto.

Il Breccia capisce subito. Si siede, anzi, no, ricorda che si sente così pesante che si lascia spingere dalla stanchezza su una sedia.

- Sei stato tu?

Il Muto lo guarda, stupito, come se non fosse noto a tutti che ha giurato vendetta all’assassino della figlia. O, forse, come se vedesse l’altro per la prima volta.

- Il treno regionale è deragliato. C’era anche lui – una scrollata di spalle - Non so quanti morti.

- Ah –mormora appena il Breccia, riuscendo a trattenere la frase che gli esplode nella mente: “Mi dispiace, hai perso la tua preda”.

Pochi minuti dopo avrebbe pensato che a maggiore ragione quella frase sarebbe stata fuori luogo, perché il Muto non ha perso del tutto la preda.

L’amico di sempre se ne va mentre l’alba cerca di vincere la notte piovosa, ma non prima di avergli lasciato l’ultimo trofeo. Il Breccia rimane a lungo a guardarlo attraverso la finestra del salone. Si muove piano, l’amico perso, il corpo pesante nel fango, e sulle spalle, piegate, sembra di leggere la dichiarazione che non ci saranno altri incontri. Non in questa vita, almeno. Perché il Muto gli ha spiegato che c’è un modo per sospendere la morte, per rendere eterni gli ultimi istanti di vita. Per catturare la preda anche quando sta fuggendo.

E a quella spiegazione ha fatto seguito il bottino. Lo stesso bottino che poi sarebbe diventato consuetudine in altre morti. Lo stesso bottino che sarebbe stato sottratto al ragazzo morto anni dopo nel suo agriturismo.

Poco prima, un tempo che sembra secoli prima, la parete era stata testimone di trofei di caccia. Teste di cinghiale, di cervo; teste vuote, occhi vuoti, che riempivano l’agriturismo del rusticità apprezzata dai clienti. C’era anche una foto in bianco e nero,una gigantografia che ritraeva lui, il Muto e un altro cacciatore di passaggio, tale Briscola, tra le vette di Città di Solitudine, con i cani da caccia. Sorridevano, incoscienti di essere mortali. Una settimana dopo avere scattato la foto, il Briscola era stato ritrovato in un crepaccio, il volto già masticato dal suo cane, impazzito di freddo e solitudine.

Ora la parete non ha i ricordi dei vivi, ma quelli della morte.

Il Breccia le osserva, piano, una ad una. Guarda ogni foto che giace appesa sulla roccia. E per ognuna di loro annuisce, senza sorpresa, perché sa che il suo agriturismo abbandonato è diventato un cimitero.

Lo è diventato da quando ha chiuso tutto e proprio lui è stato il primo a depositare il trofeo che sospende la morte.

Ed eccoli lì, ora. Eccoli tutti al “Km 76”, i nuovi clienti.

Il volto sfigurato dell’assassino della figlia del Muto, in agonia tra le lamiere del treno.

Il viso insanguinato del ragazzo ucciso, fotografato da un amico. Sta morendo, eppure ha lo sguardo rilassato, che lo stupisce ogni volta.

E poi l’immagine dei coniugi Amorosi, sorpresi in obitorio, l’ultima volta uno accanto all’altro.

E, ancora, la foto dell’unico edicolante mai stato a Città di Solitudine, la faccia solcata dal segno della falciatrice.

Il Breccia le abbraccia con lo sguardo, tutte. Sono decine.

- La fotografia rende eterni – gli aveva spiegato quella notte il Muto – Ti cattura mentre stai andando via e qualcosa di te, chiamala anima, o come ti pare, rimane nell’immagine. Per sempre.

Poi, prima di allontanarsi sotto la pioggia, aveva aggiunto: - Sarà questo che dovremo insegnare ai nostri compaesani. La fotografia durante la morte è il modo per vincere la morte – una pausa, come a cercare le parole, le mani che avevano calato il cappello sugli occhi – Per rendere meno amara la sconfitta della morte.

Il Muto è morto due giorni prima, in una casa di riposo isolata tra le colline. Lontana da tutto e tutti come era diventato lui, vecchio pazzo che in osteria parlava solo di fotografia e di morte.

Ogni tanto il Breccia chiedeva di lui a un infermiere, ex cliente dell’agriturismo, ma non aveva mai pensato di andare a trovarlo. Sapeva che tra loro era finita quella notte. In questa vita, almeno. Perché quando l’infermiere gli aveva detto che stava morendo, il Breccia aveva capito che era giunto il momento e si era precipitato verso l’agonia dell’amico.

Con la mano che non sanguina, l’uomo che una volta era il Breccia estrae la fotografia dalla tasca del cappotto liso.

Il chiodo sulla parete è già pronto a sostenere la piccola cornice nera.

- Rimani qui. Qui per sempre, amico mio.

Quando esce dai resti dell’agriturismo, e si avvicina al cancello lungo il sentiero putrido di erbacce, vede una coppia di ragazzini. Silenziosi, il capo chino, le mani che stringono una cornice ciascuno. L’uomo li saluta con un cenno, loro ricambiamo, veloci, e entrano nel giardino. Lui li segue con lo sguardo, fino a quando non entrano nell’agriturismo.

Solo allora, sul viso del custode delle foto, affiora il sussurro di un sollievo.











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