Il rispetto, insegna Kant, è la premessa di ogni altra virtù, che non può esistere senza di esso, perché il senso della dignità propria e altrui è la base di ogni civiltà, di ogni corretto rapporto fra gli uomini e di ogni buona qualità della vita, propria e altrui. Il rispetto, nei confronti di chiunque, non può venire a mancare mai. Ci possono essere situazioni – in guerra, per legittima difesa – in cui può essere tragicamente necessario colpire un uomo; non c’è alcuna situazione in cui sia lecita la mancanza di rispetto, nemmeno nei confronti di un colpevole cui giustamente venga comminata una grave pena.
Chi insulta l’avversario si delegittima; è come fosse interdetto e si includesse in quelle categorie di soggetti che secondo il vecchio codice cavalleresco non avevano i requisiti per potere essere sfidati a duello.
Gli improperi, pertanto, vanno considerati nulli.
È inutile prendersela con il turpiloquente, perché ognuno fa quello che può, a seconda delle capacità che ha o che non ha avuto dal DNA, della famiglia in cui ha avuto la sorte di crescere, delle possibilità che ha o meno di sviluppare liberamente la propria persona, dalla signorilità all’animo gretto e servile.
Chi nello scontro di opinioni si esprime con l’insulto, probabilmente non sa dire altro.
Non è scandaloso che esistano le volgarità, il grave è che chi le fa esplodere contro l’avversario non paghi dazio per lo smercio di porcherie. È avvenuto qualcosa nella società, che ha mutato radicalmente quelle che ritenevamo regole pacificamente e definitivamente acquisite del vivere civile.
È avvenuta una radicale trasformazione, che, distruggendo le vecchie classi – la borghesia, il proletariato – in un processo per altri aspetti liberatorio, ha distrutto sensibilità, valori, regole che ritenevamo componenti essenziali del patrimonio della nostra società.
[tratto dall’articolo “Quella politica dell’insulto che avvelena i nostri rapporti civili” di Claudio Magris; pag. 37 del “Corriere della Sera”, 20 agosto 2010]
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