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il guerriero



Sotto l’ombra del pugno sollevato, ha occhi plasmati da indifferenza.


E colpisce, la mano serrata nella negazione assoluta di ogni parola, colpisce, il riverbero del sangue adagiato sul trionfo dell’unica ragione della sua esistenza.


E nel silenzio che sorge quando infine si ferma, rimane solo il deserto di quello sguardo lungo di indifferenza.


Intorno, aria immobile di vittoria è sparsa su un campo di corpi sconfitti.


Ora che anche l’ultimo nemico giace sotto la lapide della battaglia, il guerriero inizia a muoversi su se stesso, senza nemmeno concedersi il dubbio di barcollare.


Occhi di ghiaccio fendono i cadaveri dei suoi nemici ed hanno lo stesso alito di nulla con cui ogni volta sfida la morte.


È un gioco, solo un gioco per lui, in fondo anche noioso, perché contempla sempre la stessa speranza, per trasformarla in regola. Almeno fino a quando sarà possibile.


Uccidere. Senza essere ucciso.


***


- Per oggi basta, Achille -


Il bambino finge di non avere sentito.


Lei annuisce. Anche prima di entrare nella sua stanza soffusa di alcool e siringhe, già sapeva che avrebbe dovuto ripetersi per raggiungere l’attenzione di lui, vagabondo in un angolo dove la vittoria ha un senso.


Achille è seduto nel letto, sparso tra soldati immobili in un lenzuolo ora così simile ad un pesante sudario da spingere il fiato della madre ad esitare sulle labbra prima di diventare nuova parola.


- Ti stanchi - riesce infine ad aggiungere mentre adagia le mani sulle sue spalle, inclinate di dolore e pianti – Finirai il gioco domani -


Allora il piccolo si affloscia, senza protestare, senza nemmeno il sussurro di un gemito, così, come un sacco pieno di niente che si è improvvisamente ricordato della legge di gravità.


La donna ha un sussulto perché in quel gesto vede la morte del figlio, svuotato dalla leucemia. Fotogrammi che si aggiungono a fotogrammi, in una lenta caduta grigia più tenace di ogni cura, più evanescente della nebbia che scivola su Fine Viaggio.


E respira in singhiozzi, a chiedere aria in una marea nera di angosce, perché l’aspetto più alienante di questi fotogrammi è che quando arrivano le danno anche sollievo.


Sollievo per il termine delle lunghe sofferenze in attesa del lutto. Per un sipario finalmente calato su una tragedia senza intervallo.


- Mamma, li togli tu i soldatini? – sussurra il piccolo Achille, steso nel letto a pancia in giù, già affannoso nel livido respiro della morte.


Gli occhi aperti in quelli della madre mostrano vetrine infrante di sogni.


Lei non risponde, non annuisce, cerca solo di muoversi in gesti automatici.


Veloce raccolta dei soldatini


(dei cadaveri)


caduta in massa nella scatola


(nella tomba)


e occultamento del tutto nell’armadio


(nel cimitero)


E perde la presa, in un tonfo lungo, fasciato di ricordi.


La scatola si inclina indecisa in un angolo del mobile, poi, sfinita, gira su se stessa e precipita sul pavimento, dove la sua bocca si spalanca per vomitare corpi disordinati di soldatini.


La donna la guarda con grandi occhi lontani.


È una delle scatole rosse e gialle regalate dal maestro Amedeo Lontano ai suoi alunni. Doveva servire a raccogliere le foglie cadute, quelle che un tempo le facevano tanto paura, perché morte. Poi il maestro aveva raccontato una storia in cui la paura era scivolata tra pieghe della vita e anche lei, come tutti gli altri, aveva accettato quel dono.


Pochi giorni dopo, quasi tutte le scatole erano sfumate tra macerie e piccoli cadaveri nel terremoto che aveva spezzato Fine Viaggio.


Lei, la bambina più terrorizzata dalla morte, era stata l’unica sopravvissuta del crollo della scuola elementare. Grigia tra la polvere, l’avevano trovata con una scatola rossa e gialla ben stretta in mano.


Da allora non se ne era più separata, ma la scatola era rimasta vuota di foglie appassite.


Fino a quando non l’aveva riempita con i giochi del figlio.


- Tutto bene, mamma? – scivola fragile Achille in tutto lo spazio silenzioso del suo passato, presente e futuro.


La donna si gira con il sorriso indossato da quei giorni, forse un po’ più logoro, ma ancora convincente.


- Mi è solo caduta la scatola. Si vede che i tuoi soldatini si sono mossi. Tranquillo, piccolo – conclude più per accompagnare se stessa verso questo nuovo lutto che per rassicurare il figlio.


Achille ricambia con un sorriso pieno di smagliature.


- Ma dai mamma, i soldatini non si muovono più. Sono tutti morti – un gorgoglio salta sul suo respiro e lo costringe a interrompersi. Solo un attimo, però, perché il piccolo guerriero non ha ancora perso la forza di un ultimo giorno di vita.


- Loro sono come quelle cose brutte che camminano nel mio corpo –


Alza il braccio, piano, in uno sforzo sorretto da un gemito nella luce che sussurra dalla penombra del tramonto, fino a mostrare la mano chiusa su un pupazzo, più grande degli altri.


– Per questo Guerriero li stermina ogni giorno - soffia in un pallore di respiro.


Lei rattoppa veloce nuovi squarci che si aprono nel sorriso e gli porta un bacio con un gesto della mano, sperando che il figlio non ne scorga il tremore.


Solo quando si volta ancora un’ultima volta verso di lui, mentre già esce dalla stanza, si accorge che il soldato dipinto di sangue sembra osservarla, colmo di indifferenza tra gli occhi di vetro.


Ne scorge anche il braccio sollevato.


E il pugno. Serrato, come quello del figlio.


A stringere il nulla.



* racconto presente nell’antologia “Città di Solitudine”

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