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la pentola

Italo osserva la pentola in alluminio, una pentola così lucida, che vorrebbe distruggerla, disintegrarla. Almeno la smetterebbe di guardarlo di rimando con il riflesso dei suoi occhi.

Italo le vede, le sue pupille agitate. Sono un ping pong nero e muto. Nient’altro. Rotolano sulle pennellate distorte di grigio della pentola e non hanno tregua.

Ha solo pochi istanti di coscienza, Italo, e li sta gettando nella pentola. Solo nella stanza, non ha nemmeno una sedia dove afflosciarsi, perché tutto il mobilio è sparito nel vortice degli ultimi minuti. Priama il letto, no, prima la scrivania, oppure, aspetta …

Italo fissa la pentola. Chissà perchèccavolo è rimasto solo questo tegame inutile. Schifosamente pulito.

Mentre il resto del mondo è svanito, la pentola è ancora qui. Adagiata sul pavimento a riproporgli la sua immagine distorta, lui che nemmeno vorrebbe rivedersi, che è solo in attesa di raggiungere il resto della stanza. Forse la convessità della pentola non fa altro che riflettere fedelmente la sua immagine e quella della parete spoglia, forse in effetti si sta già dissolvendo e per questo si vede distorto.

Italo abbassa gli occhi. Le gambe ci sono, piene di fango, ma ben solide. Le mani ci sono, affogate nel sangue, ma integre e

stringe i pugni, chiude gli occhi

integre e forti.

All’improvviso tutto finisce.

E italo vede.

La luce puntata su di lui è fievole, assorbita dalla convessità della lampada in alluminio. Una lampada sferica, che riflette l’immagine allungata del suo corpo. Nudo, disteso su un letto bianco.

Italo solleva appena la testa e non ha nemmeno tempo di stupirsi di quanto siano pesanti i muscoli. Lo cattura la vista del telo che gli ricopre le gambe, colore grigio sporco. Poi vede le sue mani, pulsanti sotto la tintura iodata. Prova a muovere le dita, ma il pensiero non si concretizza.

- Stia giù – è una voce delicata, che si infrange sul suo sguardo e lo spinge a abbassare la testa.

Un viso, no due occhi, solo due grandi occhi neri che si chinano su di lui, il resto è coperto da una mascherina chirurgica.

- Abbiamo finito – lo avvolge la voce – L’intervento di ricostruzione plastica è andato bene. Tra qualche giorno potrà tornare a casa.

Italo pensa di mostrare la propria gratitudine con un sorriso, ma forse non riesce a fare nemmeno questo. È ancora presto.

Allora chiude di nuovo gli occhi. La voce del chirurgo mormora qualcosa che cade con lui nel vuoto, ma si si perde prima di raggiungerlo.

Italo torna indietro, scava nel buio dei ricordi, fino a quando non ritrova il terremoto. La sente di nuovo la scossa, unica, potente, mentre sale dallo stomaco della terra e vomita nella sua stanza. Rivede se stesso, stretto tra le fauci delle macerie, ricorda il corpo insensibile lungo un tempo dilatato, infinito.

Sono morto, sono morto, si era ripetuto Italo, in un mantra che, invece di gettarlo nel panico, lo aveva tranquillizzato.

L’immobilità, il silenzio. L’attesa di niente. Questo era morire.

Anche riuscire a vedere il suo corpo, ma con il profilo sfumato, allungato, era la prova che si trovava in qualche limbo etereo oltre la vita.

Si era accorto della pentola proprio mentre si stava chiedendo se i gas della putrefazione gli avrebbe dato fastidio.

Gli era crollata accanto, ancora così lucida da rimandargli il profilo distorto del viso. Allora si era guardato negli occhi. Occhi che si muovevano frenetici. Occhi vivi. Palle nere nel riflesso di un ping pong.

E sotto di loro, Italo aveva scorto il lento schiudersi di un sorriso.

Quindi aveva chiuso gli occhi. In attesa dei soccorsi.

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